First Reformed di Paul Schrader

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È vuota la piccola chiesa durante le celebrazioni. Vuote le stanze in cui vive padre Toller (Ethan Hawke). Vuoto il diner in cui il reverendo incontra, incarna, il Male, l’Avversario, un potente uomo d’affari, noto inquinatore e benefattore di chiese - il quale, diabolicamente, gli rivela dove sta il male in realtà: dentro di lui. Il vuoto assedia da ogni parte l’anima di padre Toller, che invece di confessare a Dio i suoi dubbi e i suoi tormenti, li consegna a un diario.

Scriveva Thomas Merton, monaco trappista, amato da Toller (e dal movimento pacifista negli anni Sessanta): «Dentro di me, giungo presto alla barriera, al limite di ciò che sono, oltre il quale non posso andare da solo. È un orizzonte quanto mai limitato, tuttavia ho pensato per anni che fosse l’universo. Ora vedo che non è nulla. Con quale rapidità i miei limiti mi accusano del mio nulla? Mi fermo e rifletto, e la riflessione rende il mio nulla ancora più definitivo».

Merton, però, era un altro che «stava sempre nel giardino» (del Getsemani), disdegnando la montagna e il mercato, come dice il superiore di padre Toller, impegnato a organizzare la celebrazione mondana, con ri-consacrazione, dei 250 anni dalla fondazione della First Reformed, chiesa riformata fondata da coloni olandesi, diventata ormai una specie di museo frequentato solo dai turisti.

Schrader scolpisce i primi piani e inchioda il reverendo e il suo mondo dentro implacabili inquadrature 1.37:1. Il gesto sconvolgente di un ambientalista estremista, un aspirante martire nel nome della difesa del pianeta, fa deflagrare il dolore, riempie il vuoto con la sua mancanza di senso, e un misterioso “transfert” (psicologico) fa sì che il film diventi quasi un thriller (metafisico). Toller, padre di un figlio che aveva spinto a combattere una guerra inutile, a morire su un campo di battaglia, viene sconvolto dalla disperazione di un uomo che aveva paura di diventare padre. E il male che cresce nel suo corpo e nel suo spirito finisce per riflettersi in quello cosmico, universale, della Terra maltrattata dai (pre)potenti. La sua debolezza diventa rabbia, ribellione cieca, sofferenza da infliggere a se stesso e al mondo per purgarlo dal Male.

Siamo ancora lì, la colpa e la redenzione, il dolore inspiegabile, il male irredimibile, la fede che accieca e quella che salva, l’amore come unica salvezza, Bresson, Dreyer, Bergman, la ricerca del “trascendente nel cinema”. Siamo dentro un cinema che ha intuizioni potenti, che fa sentire ciò che non si può dire, che a tratti vorremmo più rigoroso (perché non si ferma dentro quel respiro, lei sopra di lui, in quel sepolcro di carne che si anima e si innalza? perché non stacca sulla ciocca di capelli che copre i volti, quando lui e lei sembrano liberati da sé stessi? non avevamo bisogno di quel volo nel cielo stellato che precipita nel dolore del mondo inquinato…). Diamoci il tempo di rivederlo con calma, perché questo è uno di quei film che hanno bisogno di essere distillati con devozione, rivisti, pensati, a tratti perdonati. Intanto ci godiamo il ritorno dello Schrader migliore, quello tormentato, radicale, insieme austero e allucinato, così carnale da diventare spirituale (e viceversa).

«L’amore si muove nel buio, quanto basta per dirmi che esiste una cosa che si chiama libertà» (Merton).