Orizzonti

La vita in comune di Edoardo Winspeare

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Edoardo Winspeare sta lavorando da tempo a una definizione nuova a e a suo modo rivoluzionaria della sud Italia. Senza regionalismi, senza pigrizia di sguardo e di racconto. Un tentativo di ricollocare una regione, un’idea di paese e di comunità, in un immaginario cinematografico liberato dagli stereotipi e in grado di rivaleggiare con un’immagine abusata e ormai sterile di storie e racconti.

Il precedente In grazia di Dio, attraverso la storia di un gruppo di donne che rispondeva alla crisi economica del settore tessile rifugiandosi in una masserie pugliese per avviare un’azienda agricola, celebrava “la marginalità come valore” (Causo), trovando in una fragile comunità al femminile una possibile per rappresentazione dell’alterità

La vita in comune riconsidera il medesimo orizzonte degli eventi, lasciando però da parte il racconto realista e utopico e scegliendo i toni più leggeri e svagati della commedia surreale. Un terreno rischioso su cui il regista pugliese prova a mettere alla prova la sua ideologia gentile e decisa. L’ambientazione è ancora l’entroterra pugliese, un ideale paesino sperduto e dal nome poco augurante (Disperata!) che porta ovunque i segni del degrado: nell’asfalto pieno di buche, negli edifici fatiscenti, nella sconsolata vita comunitaria.

Winspeare tratteggia figure buffe e bozzettistiche alle quali un po’ alla volta affida una comicità infantile e felicemente grezza (turpiloqui, rumori corporei, ingenuità al limite della scemenza): un piccolo criminale che in carcere scopre la poesia e una volta uscito cambia vita; l’ex moglie che si batte per la rinascita del paese; il figlio della coppia, aspirante criminale ma tontolone dal cuore d'oro; il fratello dell’ex detenuto, fanfarone che si atteggia a duro ma in realtà è il più sciocco e simpatico di tutti; il sindaco e professore di letteratura, ormai disilluso e stanco della politica… Sembra di assistere una farsa ottocentesca, compresa la rigidità narrativa che lega le azioni in modo causale e rivela un po’ alla volta l’animo pasticcione di tutti i personaggi (stereotipati sì, ma ciascuno capace alla lunga di trovare a una propria specificità). C’è pure un colpo di teatro inatteso, che arriva poco dopo la metà del film, che cambia la vita di tutti, ma in fin dei conti non modifica l'andamento del racconto… 

Nel mondo non più utopistico, ma lievemente assurdo di Winspeare c’è posto per tutti, come in un paradiso dei reietti trasformato in un rifugio per piccoli angeli (a cominciare dal cane fatto fuori nella prima scena e trasformato nell’immagine preferita dell’ex detenuto poeta). Disperata sta ovviamente per ogni paesucolo spopolato e dimenticato del meridione; la sua vitalità è il segreto della sua sopravvivenza, la miccia che fa sbocciare, letteralmente, la poesia. 

Il modello chissà quanto voluto di La vita in comune è ovviamente P’tit Quinquin di Dumont: gli attori non professionisti, le location spesso improvvisate, la generale sciatteria degli ambienti e delle situazioni fanno pensare all’ultima fase del regista francese, resistente e distruttiva. Il cinema di Winspeare, però, anche facendo i dovuti paragoni, non ne possiede la medesima spinta iconoclasta, non arriva mai a esprimere un autentico coraggio comico al limite dell’autolesionismo. Ha la voglia e l’audacia di essere svagato e disinteressato (alla bella forma, alla narrazione conclusa, alla commedia che chiude i giochi…), ma non ha una controllo stilistico tale da trasformare la divertita improvvisazione da set in trascinante meraviglia carnevalesca.

La depressione di Disperata riesce perciò solo in pochi momenti a ribaltarsi nel suo contrario ideale e positivo: succede quando la comicità libera finalmente la dimensione caricaturale dei personaggi e il montaggio non costringe più i corpi, le voci e gli umori degli abitanti-personaggi in una scansione narrativa meccanica e imbarazzata.

Il mondo di Winspeare è una delle poche creature autentiche del cinema italiano: è ridotto nelle misure, ma grande di cuore e audace di pensiero. È il suo cinema, purtroppo (o magari, solo per il momento), a non aver ancora definito una forma sicura, senza tentennamenti e banalità, nonostante la certezza, film dopo film, di aver trovato la propria strada.