Concorso

Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche

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Dio è la luce di questo mondo dice il Vangelo di Giovanni, citato in apertura insieme a un analogo passaggio del Corano. E non è un caso che Mektoub, My Love: Canto Uno inizi proprio con questo esergo e con un’immagine esageratamente sovraesposta che acceca il fotogramma, rendendo quasi impossibile riconoscere il contorno delle cose. Ha ragione la cultura cristiana a dare questo valore teologico alla luce, ma cosa succede quando la luce è troppa? Quando il suo eccesso non rende le cose più comprensibili ma più confuse e indistinte?

“È accecato del desiderio”, si dice quando qualcuno è così prigioniero del proprio desiderio da non riuscire più a stare razionalmente al mondo – ed è quello che accade al ventenne Amin, quando ritorna per l’estate nella città natale di Sète, nel Sud della Francia, e per prima cosa sorprende il cugino Toni e l’amica Ophélie a letto, in una trascinante e bellissima scena di sesso. I corpi (questa volta di un uomo e una donna) guardati da vicino sembrerebbero a prima vista riportare a La Vie d’Adèle, ma non dobbiamo farci ingannare: là il punto di vista – anche della macchina da presa – era quello interno di chi era trascinato dall’amore per Adèle, qui guardiamo con gli occhi di Amin, che questa scena di sesso la scruta dall’esterno, dalla finestra. Di nascosto.

Amin, il protagonista del film, è infatti uno sceneggiatore e un fotografo. La vita la guarda a distanza, non vi si immerge: “lavora al buio”, e per di più ora vive a Parigi, una città – come lui stesso ammette – dove tutto è in bianco e nero. A Sète però fa fatica a mantenere la stessa distanza dalle cose, perché la vita letteralmente lo sommerge: il corpo sensuale di Ophélie e delle mille ragazze che incontra in spiaggia, il cugino Toni e lo zio Kemal che sono seduttori incalliti, e poi le serate in discoteca dove i corpi delle ragazze si mostrano senza ritegno ai suoi occhi e si fanno toccare, spogliare, desiderare. La macchina da presa di Kechiche asseconda il suo sguardo e i corpi – tutti esageratamente belli – per mostrare un’invasione incontrollabile della vita e della sessualità. La luce è troppa e non riesce a essere “schermata” dal buio, come fa la fotografia e come è abituato a fare Amin.

Toni e tutti gli amici, i cugini, gli zii, i genitori che formano la comunità estiva che passa i giorni in spiaggia, le sere a mangiare cous cous e le notti in discoteca, vorrebbero accompagnare Amin alla scoperta della vita. Persino la madre lo tira fuori dalla stanza dove passa le giornate a guardare film, rigorosamente al buio, per mandarlo in spiaggia e alla luce. Non soltanto Kechiche ritorna nei luoghi di Cous cous dopo il grigiore di Lille, ma anche a un modo di filmare dove l’intreccio segue il ritmo di una collettività (e ritorna persino la splendida Hafsia Herzi) e la macchina da presa sta in mezzo ai mille personaggi, con voci che si sovrappongono, vicende che si legano l’un l’altra con il correlato di amore e gelosie che ne consegue (dove cioè il desiderio non è singolarizzato, come con Adèle ed Emma, ma fluttua all’interno di tutta la comunità).

Amin tuttavia rimane ai margini di questo mondo, volendo guardare più che vivere. Non ne è escluso, dal momento che tutti si preoccupano affinché si getti anche lui nella sensualità della vita (il cugino arriva a spingerlo contro le labbra di una ragazza…): il problema non sono gli altri, ma il suo stesso desiderio. In discoteca, in una bellissima e lunghissima scena nella seconda parte del film, rimane in disparte, non beve, non balla, passa il tempo a guardare il corpo di Ophélie improvvisatasi cubista, nonostante le avances di diverse ragazze.  

Con Mektoub, My Love Kechiche non solo gira il suo film più autobiografico – cosa che non sarebbe più interessante di un semplice aneddoto – ma riesce a mettere a tema, probabilmente nella sua forma più lucida, il tema fondamentale del suo cinema: il rapporto tra la vita e lo sguardo. Il suo cinema ha sempre tentato di dare una forma visiva alla dimensione plurale e molteplice della vita: non si trattava solo di usare la camera a mano, di riempire il campo acustico di voci e rumori, o di mettere il punto di vista nella confusione del mondo; ma anche – come ha fatto con La Vie d’Adèle – di costringere due attrici a estenuanti e lunghissime sessioni di riprese perché quel gemito fosse reale, quella lacrima fosse la più autentica, quel gesto fosse esattamente come è nella vita.

Inevitabilmente, prima o poi non poteva non accadere che questa dualità venisse messa a tema: la vita o la si guarda o la si vive. Tertium non datur. Amin, o vive il proprio desiderio nella sua forma scopica o lo vive nella sua forma sensuale. La comunità, o la si guarda dall’esterno o la si vive sciogliendosi in essa. Il corpo, o lo si desidera con gli occhi o lo si tocca. E per chi ha fatto della visione la propria vita, l’unica soluzione possibile sarà accettare di vivere sulla soglia del mondo e l’unico finale l'incontro chi, in modo simile, ha deciso di restare ai margine della comunità.