Concorso

The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen

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A voler fare la conta, sembra davvero non mancare nulla: ci sono i cowboy e gli indiani, le pistole e i cavalli, i fuorilegge, i cacciatori di taglie, i saloon e i ranch; ci sono le carovane, gli eroi in bianco e i banditi in nero, i cercatori d’oro e i bordelli. Non mancano neppure i sogni, le speranze, le ambizioni e le gesta leggendarie.

Eppure, in The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen, l’aria del far west non si respira praticamente mai. È lì che scorre sullo schermo: c’è davvero tutto. Ciononostante, a tratti, sembra che del genere che più di ogni altro ha forgiato l’immaginario di una nazione, non ci sia quasi niente. Forse perché a far da ritornello alle strofe di questa ballata appare sempre la morte, forse perché il destino beffardo l’aura epica delle storie di frontiera non la vuole proprio fare emergere. O forse perché, dopo quel vorticoso lavoro sui generi e l’industria cinematografica che era Ave, Cesare!, questa volta, i fratelli di Minneapolis hanno deciso di mettere il cinema in secondo piano per concentrarsi su qualcos’altro.

Per la loro ultima opera, i Coen affermano di essersi ispirati ai film antologici girati in Italia negli anni Sessanta, quelli che mettevano insieme opere di registi diversi incentrate su uno stesso tema. Ma nel dipingere le storie sul West americano che compongono The Ballad of Buster Scruggs di certo avranno tenuto conto anche dello sponsor e della piattaforma di distribuzione del film: perché per Netflix e la sua serializzazione di storie senza sosta, forse, era necessario proporre qualcosa di non compiuto, disomogeneo o con un punto alla fine. Qualcosa da narrare potenzialmente all’infinito, come una ballata su eroi e leggende cantata attorno a un falò: una narrazione in grado di esaurire il discorso nello spazio di una sola strofa, ma che al contempo lasciasse la voglia di restarsene seduti ad ascoltare. Da qui la necessità di togliere una sovrastruttura cinematografica in questo caso superflua, per concentrarsi a rappresentare solo l’essenzialità di un’idea, senza troppe sfumature o giri di parole. Uno schema da poter adattare e riprodurre alle situazioni più diverse, capace di far defluire il discorso a un’unica costante: in questo caso, la morte.

Probabilmente da qui arriva la scelta del western. Perché è partendo da lì, dalle origini di ogni storia americana, che è possibile arrivare, senza troppi sforzi, fino a oggi: continuando a raccontare la stessa storia, a cantare la stessa canzone o a leggere lo stesso racconto; passando da un’epoca all’altra, da un personaggio all’altro, ma arrivando sempre allo stesso finale. «Le storie vivono per sempre, le persone no» recita il manifesto del film. E con le persone, ci ricordano i Coen, muoiono anche i sogni, le speranze, le ambizioni e le gesta leggendarie. Nessun personaggio è in grado di portare la propria storia a compimento: è così da sempre e sarà così per sempre. E così, arriviamo all’ultima strofa, accorgendoci di essere già tutti morti.