Concorso

L'ufficiale e la spia (J'accuse) di Roman Polanski

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«Apollo… è greca?» «No, è una copia romana, l’originale è perduto» «Ah, è un falso, allora» «No, è una copia dell’originale». Questo scambio, dalla conclusione ovvia per un archeologo forse meno per chi non è uno specialista, avviene nello statuario del Louvre, tra il colonnello Picquart (Jean Dujardin) e l’investigatore della sûreté, Desvernine (Damien Bonnard): originale, copia, verità e falsificazione, qui sta la chiave di volta, assolutamente polanskiana di questo teso, rigoroso adattamento cinematografico dell’Affaire Dreyfus.

Affaire che è una vicenda sostanzialmente coetanea del cinema (i fatti che scatenano il caso risalgono al 1894-95), e che già nel 1899, quando il processo era ben lontano dalla sua effettiva conclusione, viene portato sugli schermi da Méliès in undici scene da un minuto l’una. Da allora questo caso emblematico e colossale di discriminazione  antisemita (ma non solo) è stato riproposto al pubblico decine di volte, tra versioni per la sala e per la televisione, dossier documentari e docu-fiction.

Polanski si appoggia al romanzo An Officer and a Spy di Robert Harris, autore di cui aveva già trasposto The Ghost Writer, e, sceneggiandolo con lui, ne adotta la prospettiva: benché il titolo francese del film sia quello della celeberrima lettera-pamphlet di Emile Zola al presidente della repubblica, il punto di vista qui privilegiato è quello del colonnello Picquart, promosso alla direzione dei servizi segreti proprio a seguito della condanna di Dreyfus. Pur non negando il pregiudizio personale, razziale, sull’ufficiale alsaziano, di cui era stato diretto superiore, Picquart si rende principale fautore di una sua riabilitazione, non appena si rende conto della conduzione fallosa e, faziosa dell’inchiesta da parte dei suoi predecessori, e, per far emergere la verità, la giustizia, è disposto a rischiare tutto sul fronte personale, affrontando i meccanismi di autodifesa delle gerarchie militari (e di un’opinione pubblica molto schierata).

Le gerarchie, innanzitutto. È un film dove si respira odore di lame e polvere da sparo, di una società militarizzata che si professa democratica e repubblicana, J’accuse; un film dove Polanski, egregiamente servito dal suo fedelissimo direttore della fotografia, Pawel Edelman, gerarchizza il campo/controcampo, ma, soprattutto, piega il digitale a una “rilettura”, se non a una copia, degli “originali”; alla ricreazione di un’iconografia come dicevamo già ampiamente standardizzata. Dalla sequenza iniziale, la degradazione di Dreyfus, in un gelido, sorprendente, campo lungo, fedelmente ispirata all’illustrazione di Henri Meyer per “Le petit journal”, alle scene processuali, che contaminano altre immagini di copertina del medesimo giornale con le caricature di Daumier – già “vecchie” all’epoca del processo, e in questo è impagabile Melvil Poupaud, nel ruolo dell’avvocato Labori, le viking, bloccato costantemente nel suo esagerato afflato retorico –, alle visioni virate in seppia di Dreyfus dall’Île du Diable, controcampo ideale di una celebre stereografia (immagine voyeuristica per eccellenza nell’immaginario fotografico pre-cinema) del 1898 che lo vede intento a leggere una lettera nella sua casetta sguarnita (è lui? è un figurante, una messinscena? Originale o copia?).

Polanski e Edelman, raffreddando i toni, rileggono sotto una luce differente anche la “felicità dell’impressionismo”: da Manet a Caillebotte, a Pissarro, a Toulouse Lautrec, gli “originali” sono sontuosamente rispettati nella messinscena, venendo però raffreddati nei toni cromatici, impossibilitati dal digitale ad adeguarsi, schiacciandosi, a un effetto-quadro puro e semplice, ma anzi, sono convertiti, proprio dal dispositivo, in immagini che si caricano di malinconica ambiguità, di presagi per quello che la società francese fin de siècle (e con essa la società europea in generale), tiene in serbo per il “secolo breve”.

Così come è ovvio che, con non pochi riflessi della propria vicenda personale, Polanski vuole gettare una luce, fredda e malinconica, sul nostro presente di faziosità animose, di fake news, di cacce alle streghe e agli stregoni, nella speranza, flebile, che, in questo caso, la copia rimanga solo un fatto fotografico, cinematografico.