Concorso

La vérité di Hirokazu Kore-eda

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Per il suo primo film fuori dal Giappone, Kore-eda Hirokazu ha scelto di mantenere intatto il fulcro del suo cinema, il dubbio che ammanta le relazioni tra i personaggi e il mondo chiuso che abitano.

In La vérité, girato a Parigi, prodotto con capitali giapponesi e francesi e interpretato da Catherine Deneuve, Juliette Binoche ed Ethan Hawke, c’è una villa immersa nel verde e isolata dal resto della città, «un castello che dietro cela una prigione»; c’è Fabienne, celebre attrice non più giovane ma ancora attiva (Deneuve), che ha pubblicato un’autobiografia e per l’occasione riceve la visita della figlia Lumir (Binoche), sceneggiatrice trasferitasi a New York, dove ha sposato un attore americano mezzo fallito, Hank (Hawke), dal quale ha avuto una bellissima bambina, Charlotte. Le due donne sono legate da un rapporto conflittuale, ma il vero dramma che le divide, più che il rancore della figlia trascurata o l’arroganza della madre che ha sacrificato gli affetti alla carriera (non solo la figlia, ma anche il marito fannullone o lo storico assistente mai citato nell’autobiografia), è l’incertezza delle loro parole, l’inganno dell’intreccio fra realtà e finzione che mina ogni dialogo ed emozione.

Fuori dalla casa di Fabienne, in La vérité c’è un solo altro spazio importante: gli studi cinematografici dove si gira un film di fantascienza in cui Fabienne interpreta la parte di una figlia paradossalmente più anziana della madre, una donna che per sopravvivere a una malattia ha deciso di vivere nello spazio facendo visita alla famiglia ogni sette anni, di volta in volta sempre uguale a dispetto dei suoi cari che invecchiano. Lumir accompagna la madre sul set, e così facendo si fa spettatrice di uno spettacolo che rispecchia e al tempo stesso modifica la sua stessa vita e il suo passato, con l’attrice protagonista del film nel film – una giovane stella emergente interpretata da Manon Clavel – che tutti dicono somigliare alla vecchia amica e rivale di Fabienne, una promettente attrice morta diversi prima in un incidente…

Sembra un classico e già visto gioco di scatole cinesi, ma in realtà Kore-eda gestisce il suo mosaico di relazioni con una finezza che non ha nulla dello scherzo intellettuale. Nonostante gli evidenti e potenzialmente fastidiosi elementi meta-cinematografici, il mondo di La vérité non è né set né palcoscenico, né finzione che nasce dalla realtà (l’attrice scomparsa di cui tutti parlano ricorda Françoise Dorleac, sorella della Deneuve morta in un incidente stradale nel ’67; i capelli di Fabienne sono spesso agghindati come quelli di Séverine in Bella di giorno; Fabienne naturalmente ha molto del carattere della vera Deneuve…) o il suo contrario.

Quello di Kore-eda è un mondo raffigurato in totale, concluso e puramente cinematografico, costruito dai personaggi che vi prendono parte e definito dalle loro parole e dalla loro presenza. Non c’è nulla di gratuito, in La vérité, ma al massimo di naturale, perché le relazioni fra i personaggi – scritte, recitate, improvvisate e continuamente sconfessate dai personaggi stessi, che si rimpallano di scena in scena tentativi di seduzione e inganno – sono sempre gestite a partire da uno sfasamento o da un’assenza (dell’attrice morta, di tutti i ruoli che Fabienne ha interpretato nella sua carriera) che le rende vive e paradossalmente vere.

Ogni relazione raccontata nel film – fra madre e figlia, nonna e nipote, moglie e marito, suocera e genero, attrice e rivale – è ripetuta in modo sbilenco (nell’autobiografia piena di bugie di Fabienne, nei dialoghi che Lumir scrive per la madre per aiutarla a chiedere scusa al suo assistente), ripreso e ribaltato (il gioco delle età che si invertono fra madre e figlia), scritto e poi improvvisato, improvvisato e poi trasformato nella battuta di un copione… La verità, insomma, per Kore-eda è un dubbio ripetuto così tante volte da essere diventato vero; o forse l'opposto, un fatto realmente accaduto che nel ricordo ha assunto i contorni di una fantasia. Chissà.

E il cinema, come giù succedeva in Third Murder, anche quando mostra i fatti nel momento in cui accadano (un omicidio, una confessione, una lacrime) non può fare a meno di contemplare l'inevitabile esistenza dell'inganno. La totalità dello spazio rappresentato implica perciò una contraddizione, un’ambiguità di fondo, che è ciò che rende i mondi chiusi di Kore-eda splendide e spietate raffigurazioni in miniatura del mondo e delle sue tensioni.

Era così per la piccola casa di Un affare di famiglia o per la giostra di Ritratto di famiglia con tempesta, ed è così per la villa alle porte di Parigi di La vérité, anch'essa replicata nel film dal piccolo teatro di cartone che Charlotte prende in mano nella prima scena e che il nonno ripara amorevolmente. In quell’oggetto all'apparenza trascurabile c’è in realtà la presenza del regista che forse più di ogni altro ha fatto da modello e ispirazione per questo primo film europeo di Kore-eda, Ingmar Bergman. Il teatrino è quello di Fanny e Alexander, così come il nonno di Charlotte che appare, scompare e riappare nei panni di una tartaruga fa pensare al rabbino Isak Jacobi di Erland Josephson; mentre Fabienne e Lumir ricordano la madre e la figlia in conflitto di Sinfonia d’autunno, dal quale a loro volta sembrano provenire le riprese del film interpretato da Fabienne, allestite in un spazio filmato orizzontalmente e palesemente finto...

In questi piccoli omaggi chissà quanto consapevoli c’è il segreto della bellezza di La vérité, l’idea cioè di un cinema che agisce liberamente sulla realtà e sulla sua messinscena, evidenziando proprio nella loro continua frizione il rumore della vita. Il frastuono del metrò che d’inverno si sente oltre il giardino, ad esempio, come dice Fabienne nel finale. O il sapore delle lacrime, la bellezza dell’inganno, l’incertezza della sincerità…