Concorso

Martin Eden di Pietro Marcello

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La storia di un uomo che crede solo nel proprio essere uomo (individuo, in lotta con un mondo ingiusto e spietato). Che pensa di potersi “salvare” grazie all'amore e alla scrittura. Che finisce per naufragare nelle proprie illusioni, le idealizzazioni (lei, la scrittura, la realtà), nell'incapacità di andare oltre se stesso, degenerata in un male di vivere che è un feroce disincanto, l'atroce consapevolezza di una strada senza uscita.

Questo è, tra le (tante) altre cose, il Martin Eden di  Jack London. E questo è in parte anche il Martin Eden di Pietro Marcello, un dramma esistenziale costruito sulla fame di vedere e capire del protagonista (destinata a consumarsi tragicamente), un romanzo (anti)borghese che celebra «la colossale mediocrità senza amore della borghesia» (parole di London). Se non fosse che il film di Marcello è punteggiato da immagini e materiale d'archivio, da evocazioni e ricostruzioni in bianco e nero di un'epoca, anzi un secolo, il Novecento, attraversato in libertà. Tanto che si ha l'impressione che il film non racconti solo un uomo e i suoi tormenti, ma lo “spirito del secolo” (che è arrivato, che verrà), la sua ansia di libertà e le sue nevrosi, la lotta di classe e i suoi limiti (masse di uomini destinate a passare da un padrone all'altro, da una finta democrazia a una finta rivoluzione), l'ossessione della competizione e dell'affermazione personale, la conoscenza come strumento di emancipazione e l'equivoco della cultura di massa...

La trasposizione napoletana lo rende insieme più concreto e più astratto. È un uomo vero, verace, questo Martin Eden (Luca Marinelli, ancora una volta bravissimo), marinaio spiantato che frequenta i bassifondi e si gode la sua apparente libertà animale, senza farsi troppe domande sul suo essere schiavo (se ne farà sempre di più, diventando un ribelle). Il suo approdo casuale in casa di Arturo, giovane rampollo di una ricca famiglia borghese, l'incontro con Elena, l'innamoramento, la decisione di diventare “come lei” (di leggere, studiare, fare lo scrittore), sono abilmente riassunti in pochi dialoghi e in immagini che si possono quasi toccare, piene di cose, suoni, sguardi. E però, allo stesso tempo, ci sono quadri impressionisti e immagini impalpabili che acquistano un'aura simbolica, e dialogano con il cine-repertorio, con l'apparizione dell'anarchico Malatesta, con l'evocazione di Majakovskij o Dagerman (a proposito di spiriti tormentati, morti suicidi), in un intreccio tra letteratura e memoria, tra storia ed eterno presente dei dilemmi umani, in un dialogo tra individuo e mondo, desideri personali e istanze collettive (cosa c'è di più novecentesco?).

Pietro Marcello, in questo film imperfetto, conferma tutto il buono che già sappiamo sul suo modo ambizioso di fare cinema, che insegue la realtà (la verità della realtà), ma ha anche una vocazione lirica, incarnata in immagini evocative. Senza per questo venir meno alla narrazione puntuale delle gioie e dei tormenti di Martin Eden, che non possiamo non amare, nel suo ardore di conoscere, amare, arrivare, nel suo talento che finisce per smarrire il senso della propria arte.

Il modo più sciocco per guardare questo film, è quello di tenere in controluce il romanzo, con la sua formidabile complessità (e l'energia, e la poesia): perché allora si noteranno soprattutto le svolte affrettate, la sintesi obbligata e perentoria, il salto spiazzante fra l'alba della speranza e l'inizio della fine. Mentre la sua forza sta proprio nella libertà che si prende, nella capacità di raccontare un dramma personale che ha risonanze universali, nelle sfumature di un romanzo che è anche un caleidoscopio della memoria e un poema (per immagini).