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Wasp Network di Olivier Assayas

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Wasp Network non somiglia quasi per niente a un film di Olivier Assayas. Anzi, per quasi un’ora sembra tutt’altro: un divertissement, uno scherzo, una divagazione non richiesta. E in fondo non è niente di troppo distante da questo: si tratta infatti di un lavoro su commissione che Assayas ha accettato soprattutto per lavorare ancora con i produttori, il cast e sulle location di Carlos, la sua mini serie del 2010 incentrata sulla vita del terrorista venezuelano Ilich Ramírez Sánchez. E infatti Wasp Network somiglia più a una serie, quasi a una soap sudamericana, che a un film. Proprio per questo le due ore di durata, se si scende a patti con il film, se si accetta uno storytelling quasi completamente modulato da una narrazione “causa-effetto”, sembrano addirittura poche e si vorrebbe che diventassero qualcos’altro, magari proprio il pilota di un racconto seriale.

La storia, tratta dal romanzo The Last Soldiers of the Cold War: The Story of the Cuban Five di Fernando Morais, racconta di come durante gli anni Novanta del secolo scorso l’intelligence cubana formò un gruppo di agenti per infiltrare le organizzazioni anti-governative dei connazionali esuli che dalla Florida lavoravano – anche con atti di terrorismo – per provocare la caduta del governo castrista. Le vicende private, gli amori, i legami familiari e i sacrifici di questi uomini, impegnati per anni a mantenere il segreto anche con gli affetti più cari, diventano il centro del film e rendono il racconto qualcosa a metà fra una spy story e un mélo.

Anche dentro un tale registro, tuttavia, Assayas riesce a mettere in campo alcuni dei temi cari al suo cinema. Come lo sguardo sulla Storia, che in questo caso diventa un dispositivo scivoloso, inafferrabile, relativo: che non dice la verità. Il ribaltamento narrativo, ma anche di senso, che avviene nel film più o meno dopo la prima ora, esprime proprio questa impossibilità di un racconto storico coerente e lineare. In ottemperanza alle regole dei racconti di spionaggio Assayas confonde i piani di realtà, racconta una storia vera che è allo stesso un romanzo e in cui tutto potrebbe assumere in ogni istante il significato opposto a quello che appare.

La forma un po’ patinata e superficiale in stile telenovela che il regista utilizza, in questo senso, diventa anche il modo più facile (e forse un po’ furbo) per stemperare la materia scottante che si trova fra le mani. Argomenti cioè che devono essere continuamente confrontati da chi guarda con le proprie posizioni politiche e convinzioni ideologiche. E anche se tutto questo conta in fondo questo feuilleton sulle “ultime” spie di un mondo che dopo la fine della Guerra fredda inizia a spiarsi un po’ di meno – o magari comincia a farlo in modo diverso – appare quasi come uno sguardo a metà fra il nostalgico e lo spensierato su un’epoca distante solo un quarto di secolo, ma già lontana, sfocata e quindi, proprio come nelle soap opera, piena di vita.