Orizzonti

Gaza mon amour di Tarzan e Arab Nasser

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Da qualche tempo il cinema palestinese, pur nelle mille difficoltà produttive che affronta e a dispetto di trovarsi a raccontare uno dei luoghi più tormentati del mondo (e della storia) contemporaneo, si affida sempre più spesso alla commedia. Sarà forse l’influenza, autorevole e fondamentale, di Elia Suleiman o una certa consapevolezza comune a tanti giovani registi, convinti di potere raccontare quello che sta sullo sfondo di un conflitto terribile e infinito, attraverso lo svago, l’ironia e l’astrazione. Uno sfondo in cui stanno le storie, le vite e l’umanità delle donne e degli uomini della Palestina di oggi. Quelle che contano più di tutto.

Tarzan e Arab Nasser, gemelli, classe 1988 nati e cresciuti a Gaza, al loro secondo lungometraggio, dichiarano, sin dal titolo, l’amore per la propria terra. E cercano a raccontarla allontanandosi dagli stereotipi e provando uscire dalle logiche della guerra e dell’occupazione alla quale si tende comunemente ad associare Gaza e la Palestina. Mostrandoci la loro città come un luogo in cui nascono storie d’amore e d’amicizia e in cui tutti hanno il diritto di sognare.

Issa ha sessantacinque anni, fa il pescatore e non si è mai sposato. Un giorno decide che è ora di trovarsi una moglie e inizia a fare la corte a una vedova che abita nel quartiere con la figlia divorziata. Consuetudini familiari, apparenze da salvare e un’antica statua greca che l’uomo trova impigliata nella rete della sua barca e gli causa guai con le autorità locali, rischiano però di far naufragare i suoi piani…

La trama esile non nasconde un film elementare. Gaza mon amour è ricco, ricchissimo di elementi sottili, quasi impercettibili, in grado di creare un’atmosfera e raccontare con grande intelligenza un luogo unico al mondo. La vicenda della scultura è realmente accaduta: nel 2014 un pescatore di Gaza tirò su per caso un’antica statua greca raffigurante il dio Apollo. Hamas decise di provare a venderla per risanare le finanze del paese, ma con il tempo se ne sono perse le tracce. Issa non è il pescatore protagonista del fatto di cronaca, ma potrebbe benissimo esserlo.

I registi s’inventano una storia plausibile, vera come è vera la gente che la anima. Donne e uomini ai quali sono imposti limiti che noi qui in occidente non possiamo nemmeno immaginare e che hanno la forma dei checkpoint, degli autobus o dei taxi che a un certo punto e senza preavviso smettono di passare, della corrente che c’è quando c’è o di un mare “grande” solo cinque chilometri. Lì si vive, si ama, si muore e si aspetta che il tempo passi come in qualunque altra parte del mondo, oppure no, lo si fa un po’ diversamente, anche parecchio. Ma non è per questo che non ci si possa sentire “come dei re”.

Gaza mon amour ci dice di come anche in mezzo al buio, alle bombe, a uno stato di polizia persistente e asfissiante si possa trovare lo spazio per gettare lo sguardo oltre le barriere e i tetti in lamiera, al di là del filo spinato e dei confini. E magari trovare il tempo per guardare negli occhi la statua oscena di un satiro dionisiaco che sembra arrivare da un altro mondo, per una passeggiata sotto la pioggia senza ombrello e per farsi fare l’orlo ai pantaloni in una sartoria per sole donne. O più semplicemente per riderci su, a crepapelle. Non proprio una cosa banale.