Giornate degli autori

Saint-Narcisse di Bruce LaBruce

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In famiglia non è peccato. Anzi sì, è peccato. Fortunatamente. In famiglia non si lavano più i panni sporchi perché Bruce LaBruce i panni, quelli consunti del tradizionalismo culturale e dei ruoli imposti, della religione e del pensiero omologato, chiede di smetterli, strapparli dai corpi e dalle identità per toglierli una buona volta di torno. Niente di nuovo, per LaBruce è un mantra fin dagli esordi sporchi e hardcore. Ma se nel suo capolavoro The Raspberry Reich il regista invocava una rivoluzione che sapesse sfruttare la politica quale campo minato di totem da sbriciolare e sacre scritture da bruciare al grido di «The revolution is my boyfriend», da un po’ di tempo egli sembra adagiarsi in un ritornello un po’ stonato e un po’ sfiatato di una canzone già sentita troppe volte, tanto nell’underground queer più estremo quanto nel mainstream dell’intellighenzia LGBT (da cui LaBruce ha sempre per giunta tenuto le distanze).

L’anima più incendiaria di un filmmaker un tempo fondamentale è però evidente in Saint-Narcisse, che sembra lusingare proprio quel mainstream così detestato per disarcionarlo dal proprio trono: come in Gerontophilia, ma con più malizia birichina, Bruce LaBruce cerca una dissacrante “quadratura” di genere che sia contemporaneamente segno di insofferenza e speranza per il futuro. E allora in questo ritrovo famigliare, madre figli gemelli sorellastra un po’ madre un po’ moglie un po’ figlia, i legami di sangue sono specialmente legami sessuali, di sesso, e molto erotici. La famiglia di Saint-Narcisse è un quadro votivo dove l’incesto è benvenuto perché rompe gli indugi della società del conformismo ideologico. Un figlio ritrova la madre, rinnegata dal marito per un’avventura lesbica, e poi ritrova il gemello, e con lui scopa (per LaBruce si è sempre trattato di “scopare”, non d’altro di più edulcorato) perché è uguale a sé, e non c’è niente di più eccitante che scopare guardandosi (com’è ancora lucido, LaBruce, quando vuole, e quando deve punzecchiare l’immaginario queer più innominabile: ne sarebbe andato fiero Mario Mieli).

È ciò che lo rende libero, è ciò che libera tutti. Poi il resto è un orpello divertito, talvolta sapido, talvolta un po’ spuntato, come il convento di fraticelli nel quale il gemello perduto cresce sverginato dal superiore che lo crede un novello San Sebastiano (e qui i colori, i toni e le atmosfere sembrano arrivare dritti da uno scrauso softcore horror di David Schmoeller). Ciò che conta, per un autore che ormai ha già dato il meglio e che oggi indossa i panni di un barricadero attempato e vagamente mesto, è che c’è ancora la possibilità di cambiare le cose: basta spostare lo sguardo e rinunciare alle proporzioni più scontate; basta ritrovare il sé più arrapante e darsi a lui, perché a essere narcisi, in questo mondo così deprimente, ci si guadagna in vita.