Concorso

On the Job: The Missing Eight di Erik Matti

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Sono passati sette anni dalla prima parte di questo progetto del regista e produttore filippino Erik Matti. Se il primo capitolo, presentato a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs nel 2013, si concentrava su due detenuti liberati scientemente dalla polizia per eliminare alcuni personaggi scomodi, in questo secondo capitolo On the Job: The Missing Eight le vicende dei due derelitti si incrociano con quelle ben più articolate di un gruppo di giornalisti (sette + il figlio di uno di loro) che sparisce nel nulla. In realtà lo spettatore sa che sono state vittime di un'aggressione malavitosa e non gli resta che abbandonarsi al fiume di immagini, sovrimpressioni, canzoni, split screen, post social, telefonate, trasmissioni tv, interviste giornalistiche, manifesti pubblicitari che inondano lo schermo in un costrutto mirabolante, eccessivo, straripante che lascia addosso la sensazione di essere bloccati in un ingorgo stradale tra odore di street food, gas di scarico, luci dei peep show e gigantesche pubblicità di centri commerciali.

Tra la ricerca degli otto scomparsi, le lotte di potere, i discorsi pubblici di un sindaco corrotto, il braccio di ferro tra opposte fazioni malavitose, la fake news e manipolazioni mediatiche di ogni genere, seguiamo il carismatico reporter Sisoy Salas (John Arcilla) - conduttore radiofonico, giornalista, frontman e uomo immagine della testata LPN – che da cialtrone massimo si trasforma pian piano in un personaggio più complesso e travagliato. Il caos istituzionale, politico, legale, sociale, mediatico regna sovrano - probabilmente non solo nelle Filippine – ed Erik Matti sceglie di mettere in scena questa realtà esplosa proprio facendone esplodere tanto la narrazione quanto la rappresentazione.

Prende forma cosi questo titanico kolossal che alterna momenti scorsesiani a un’estetica da trasmissione canora di emittente locale e poi  azione, violenza, sparatorie secondo stilemi da poliziesco ultra pop ma anche momenti larmoyant e gag comiche. Non manca nulla in questo ambizioso progetto condotto con ammirevole consapevolezza registica ma anche con un tale ingordo e insaziabile piacere barocco di giocare con le immagini e con tutti i possibili e immaginabili testi, sottotesti, paratesti da diventare quasi una mastodontica esibizione che tra ebbrezza e perdita di coordinate finisce per essere un po’ sterile.