Concorso

The Lost Daughter di Maggie Gyllenhaal

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Su una spiaggia della Grecia una donna passa le vacanze estive. È sola, ha 48 anni, si chiama Leda, come la figura della mitologia greca posseduta da Zeus sotto forma di cigno, è americana e ha due figlie ormai grandi, di 25 e 23 anni. Leda è una docente di letteratura comparata, traduce dall’inglese all’italiano e nel corso della carriera ha lavorato soprattutto su Yates e su Auden. Proprio da Yates, dice lei (a interpretarla è Olivia Colman), viene il suo nome strano e pretenzioso, dalla poesia Leda e il cigno, che racconta l’atto di Zeus come uno stupro e come l’incontro fra umano e divino che ha dato via alle civiltà greca e romana.

Nella tensione fra violenza e generosità, pulsione e accoglienza, curiosità e attenzione, si gioca l’intricata rete di sguardi e immedesimazioni, desideri e rifiuti messi in scena da The Lost Daughter, esordio alla regia dell’attrice Maggie Gyllenhaal, che ha adattato di suo pugno La figlia oscura di Elena Ferrante, romanzo del 2006.

Nello sguardo di Leda, donna solitaria e autonoma, sta la sua natura di studiosa e traduttrice, una disponibilità all’attenzione, all’osservazione e all’ascolto che si trasforma per paradosso in una concentrazione egoistica su di sé e sul proprio terreno d’indagine. Seduta in spiaggia, alle prese coi suoi libri, Leda osserva una famiglia di turisti americani di origine greca che hanno invaso il suo spazio, gente invadente, volgare e dall’aria minacciosa. Tra di esse spiccano però la trentenne Nina, bellissima, provocante eppure fragile (è Dakota Johnson), e la sua bambina Elena, che non si separa mai dalla sua bambola. Dalle urla di Nina che chiama la figlia nascono i ricordi di Leda, i flashback dei suoi anni da giovane madre di New York, sempre alle prese con i testi da tradurre, le figlie da gestire, il marito accademico via per lavoro…

Elena Ferrante li chiama “momenti opachi”, quelli in cui la mente di Leda usa la realtà sotto i suoi occhi per sprofondare con la mente nel suo passato, agli anni in cui soffriva la presenza soffocante delle bambine, in cui la sua figlia più problematica le rovinò la sua bambola preferita, in cui la sua carriera cominciò a prendere il volo, in cui si innamorò di un collega e abbandonò la famiglia per tre anni senza mai voltarsi, vivendo per questo momenti bellissimi di cui non vergognarsi mai.

La chiave del mondo di Leda sta proprio nel solipsismo del lavoro di traduttrice, la sfida individuale al testo, al modo in cui lo si capisce e interpreta. Se nei suoi saggi critici Leda parla di generosità, di incontro con la mente dell’autore, nella vita è più propensa a intendere tutto come un meccanismo di sostituzione: una parola per l’altra (l’originale inglese e la sua versione in italiano), una madre per l’altra (sé stessa e Nina), una figlia per l’altra (le sue figlie, Martha e Bianca, ed Elena, ma anche la bambola che la stessa Leda sottrae di nascosto alla bambina). Per Leda tutto è un gioco, come dice a Nina dopo averle rivelato la sua responsabilità nella sparizione della bambola.

Gyllenhaal traduce la complessa dinamica interiore di Leda in uno sguardo ravvicinato sulle bravissime Olivia Colman e Jessie Buckley (Leda da giovane), che diventa a sua volta un’altra forma d’attenzione e un’ossessione, una presenza soffocante come la richiesta d’amore e ascolto di tutte le bambine del film. La tensione che si accumula nel racconto apre anche alla possibilità della violenza (il marito di Nina è un piccolo mafioso e nel villaggio greco un gruppo di giovani schiamazza continuamente in maniera aggressiva), ma è la stessa Leda, come il personaggio di un film di Ozon, a incamerare lo spirito selvaggio e indomito e a “tradurlo” in forme mediate.

Gyllenhaal, da regista esordiente troppo ambiziosa, non ha la forza e la consapevolezza di aprire il suo film a tutte le ipotesi che mette in campo (c’è anche un momento in cui Leda vede al cinema La gatta sul tetto che scotta…), fermandosi alla presenza quasi tattile dei primi piani, dei corpi esposti, dei vestiti macchiati, degli oggetti simbolici che contengono vermi, che trafiggono e segnano. The Lost Daughter esagera con la matrice letteraria e intellettuale, eccedendo in sovrapposizioni e sostituzioni. Anche per questo, però, nella sua confusione e superficialità riesce a trasmettere il peso della condizione di Leda, la sua presenza di troppo nel mondo in cui si muove, la sua età sbagliata (tutti le danno meno anni di quelli che ha, e nel passaggio da un’attrice all’attrice qualcosa non torna), la sua necessità di liberarsi, di uscire dalla meccanica del gioco che lei stessa ha avviato, fuggendo – da figlia, da madre, da donna – sia dalla vita in cui è cresciuta, sia da quella che si è costruita.