La prima sequenza di "Getaway" (Peckinpah)

Cosa resta ai perdenti?

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Si apre con un’immagine illusoriamente idilliaca The Getaway, film di Sam Peckinpah del 1972: alcuni cervi stanno pascolando tranquillamente su un prato verde. Ma chi conosce il cinema, sporco e brutale, del grande regista californiano sa bene che si tratta soltanto di apparenza: la macchina da presa, infatti, si alza progressivamente mostrando il palazzo di una prigione, attuale dimora del protagonista Carter ‘Doc’ McCoy, condannato a dieci anni per rapina a mano armata. La voce, inizialmente narrante e poi direttamente in campo, ci racconta che è in corso una seduta per concedere al detenuto quella libertà vigilata che presto riuscirà a ottenere.

Fin da queste prime battute, è pienamente riconoscibile lo stile impressionista (perché no?) dell’autore. Un montaggio rapido, anarchico, fatto più di sensazioni che di concetti.

I continui frame-stop e i tagli di montaggio trasportano immediatamente lo spettatore in una classica sinfonia visiva “à la Peckinpah”, costruita su inquadrature brevi, accompagnate da rumori di ogni tipo: fischi, risate e soltanto in seguito dalla partitura musicale di Quincy Jones.

A contribuire a tale apparato visivo, da segnalare la fotografia del fidato Lucien Ballard (già chiamato a prove pirotecniche da Peckinpah per Il mucchio selvaggio del 1969) di cui, in pochi minuti, si può già notare l’infinita gamma espressiva e la contrapposizione luce-ombra.

La sceneggiatura, scritta da un allora esordiente Walter Hill, trasmette subito e con foga il tono crepuscolare delle pagine di Jim Thompson, autore del romanzo, datato 1959, da cui il film è tratto.

Sul volto di Steve McQueen (Carter McCoy) si respira quel desiderio di libertà e di fuga, senza una meta precisa, tipico del filone della New Hollywood del periodo (tanti gli esempi in questo senso: dal classico Easy Rider di Dennis Hopper alla Strada a doppia corsia di Monte Hellman). Quando l’amata Carol (Ali MacGraw), una volta uscito di prigione, gli chiede dove voglia andare, lui risponde semplicemente: «un po’ a spasso».

I primi minuti, in cui Doc è ancora in prigione, sono inframmezzati da inquadrature intime, in cui viene accarezzato da Carol: se siano flashback o flashforward (altra scelta stilistica tipica della New Hollywood) ancora non ci è dato saperlo.

La conclusione dell’incipit ci mostra i due protagonisti in un parco, tra bambini che stanno giocando accanto a un fiume e a una piccola cascata. Doc s’immagina di essere in acqua, abbracciato a Carol: anche in questo caso potrebbe essere il ricordo di un passato felice o la semplice speranza di un futuro sereno che, appena iniziato, appare già impossibile da realizzare.

La sequenza finisce così com’è iniziata: un’immagine idilliaca che contrasta con l’universo tipico del regista.

Un universo i cui personaggi sono segnati da un destino fatale, incapaci di trovare il giusto posto nella società. Vengono allora alla mente le parole di Ace Bonner (padre di Junior, interpretato sempre da Steve McQueen) ne L’ultimo buscadero (Junior Bonner, 1972), altra pellicola di Peckinpah, uscita soltanto pochi mesi prima di The Getaway: «Se questo mondo è tutto per i vincitori, che cosa resta ai perdenti?».