"Vite vendute" (Le salaire de la peur) di Clouzot, Grand Prix nel 1953

Lezione di suspense

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A descriverne la trama nella sua essenzialità parrebbe più un videogioco che una pellicola di culto: quattro uomini devono guidare due camion senza sospensioni carichi di nitroglicerina per oltre trecento miglia su strade dissestate in cui ogni buca può rappresentare un pericolo e ogni curva può nascondere l'ostacolo decisivo.

Basterebbe questo per agire come un detonatore (pardon!) sull'interesse del pubblico e incollarlo al seggiolino della sala, temendo irrazionalmente che anche una singola emissione di fiato potrebbe essere fatale per l'incolumità dei protagonisti.

Ma non c'è solo questo.

C'è la deriva dei personaggi, scorie del mondo scivolate in un limbo viscoso alle soglie dell'inferno nel quale sostano in perenne attesa di un qualunque evento che pare non accadere mai. Il tentativo d'impresa si profila come il possibile riscatto di un'intera esistenza e invece non è altro che un ultimo, vano slancio vitale nichilista. Si dà come epopea dell'incoscienza, ma è solo il tragitto di una disgregazione. Dopato di adrenalina machista, ma destinato inevitabilmente alla sconfitta. Ombre protagoniste di un ultimo lampo esplosivo prima che le tracce del fumo si diradino per sempre.

C'è anche la critica all'imperialismo americano, lo sdegno verso lo sfruttamento intensivo del territorio («se c'è del petrolio qua attorno, loro non saranno lontani» è una delle battute indicative), l'impietosa scelta del profitto sulla vita umana. Non solo perché priva di prospettive. Un motivo che fece mutilare scene e dialoghi ritenuti offensivi sul mercato americano.

E soprattutto c'è la magistrale lezione di suspense. Quello su cui (quasi) tutta la struttura si regge. Perché la tensione si mette in moto dopo un'ora, spaccando in due una vicenda prima indolente e pigramente contemplativa, poi inarrestabile e mozzafiato.

Nella sua costruzione, Clouzot ignora la complicità del tempo ed esalta i dettagli, creando l'attesa sulla singola buca, su un asse di legno spezzato con vista a strapiombo, su una salita impervia, sul tirante in cui s'impiglia un gancio, sul masso che blocca il cammino. Yves Montand li supera tutti, uno per uno. Fino al tragico valzer finale in cui la morte perde anche il diritto alla spettacolarità per diventare solo un modo stupido per arrendersi al proprio fallimento.

In attesa di Cannes 2014, rievochiamo alcuni dei film che abbiamo amato di più tra i vincitori della Palma d'Oro (e del Grand Prix). Racconteremo, tra gli altri, Il Gattopardo di Visconti, Cuore Selvaggio (Wild at Heart) di Lynch, Vite vendute (Le salaire de la peur) di Clouzot, La classe-Entre les murs di Cantet, Lo spaventapasseri (Scarecrow) di Schatzberg, Breve incontro (Brief Encounter) di Lean, L'albero degli zoccoli di Olmi, Elephant di Gus Van Sant, Barton Fink dei Coen...