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Intervista a Cristi Puiu - Lucca Film Festival

La scorsa settimana il regista rumeno Cristi Puiu, lo scorso anno in concorso a Cannes con Sieranevada, ha ricevuto il premio alla carriera dal Lucca Film Festival, che gli ha inoltre dedicato la prima retrospettiva italiana. Lo abbiamo incontrato.

Chi è secondo lei un bravo regista?
Un bravo regista è un regista che non mette sé stesso nei suoi film, ma le persone. Un buon film è un film in cui non si percepisce la presenza del regista.

Lei però in Aurora ha messo sé stesso, almeno come attore…
Sì, come attore, ed è stato difficile essere presente come attore e non come regista. Quasi schizofrenico... Un incubo.

Nel suo cinema si percepiscono elementi che rimandano in maniera implicita al neorealismo, a uno sguardo aperto e disponibile verso il reale. È d'accordo?
Sì, può essere. Ma non è un'ispirazione al neorealismo la mia, è semplicemente qualcosa con cui sono cresciuto. È una cosa che ti porti dentro da sempre, che ha radici profonde nella tua cultura. È come il background che ti ha formato: io ho cominciato da giovane con la pittura, con un grande artista come Giorgio Morandi, e da lì sono passato al cinema. Ho sentito il bisogno di testimoniare la mia vita. Adesso ho ripreso a dipingere, ho uno studio tutto mio. La pittura è una terapia.

La pittura è una terapia e il cinema è un incubo?
A volte può diventarlo. Perché sei completamente solo, quando fai un film. E questa può essere in assoluto la cosa migliore e peggiore allo stesso tempo. Perché se fallisci ti senti tradito.

Qual è il film di cui è più soddisfatto?
Nessuno. Nessun film sarà mai totalmente come vuoi. Sai di essere soddisfatto quando hai dei frammenti che corrispondono a ciò che avevi in mente, per il resto è una continua mediazione. Il cinema non dà risposte, ma formula domande. È come fare il genitore. Io ho tre figlie, di 23, 18 e 7 anni, e c'è questo proverbio giapponese che dice: "Il primo figlio è l'ultimo burattino, il primo nipote è il primo figlio". Significa che non impari mai a fare il genitore, se non continuando a porti domande, come quando fai un film. Ci sono due tipi di cinema: il cinema di propaganda, che ti vuole a tutti costi convincere di qualcosa, e il cinema artistico. Io appartengo alla seconda categoria: faccio cinema perché ho tante domande, ma non do risposte.

Fare domande senza dare risposte significa saper ascoltare. Dicono che per essere un buon scrittore bisogna prima di tutto saper ascoltare. È così anche per un regista?
Credo di sì. Sono cresciuto in una famiglia di tre fratelli, con una sorella maggiore e un fratello minore, ho dovuto ascoltare. Era una cosa che mi veniva naturale. Ma è un'arma a doppio taglio: può essere estremamente rischioso ma può anche aiutare gli altri. Bisogna essere in grado di aprirsi e di proteggersi allo stesso tempo. È estremamente rischioso, ma se non rischi non ti diverti. Passiamo la nostra vita a indossare delle maschere, e questo è normale, ma se menti le persone se ne accorgono. Infatti ai provini dico sempre agli attori di non recitare. Gli attori sono creatori, e io voglio permettere loro di creare, voglio che mi diano ciò che sono. Quando mi chiedono se devono comportarsi come nella vita reale, rispondo di no, perché nella vita reale mentiamo continuamente. Per questo un regalo che faccio spesso sul set è Uno, nessuno e centomila di Pirandello.

Quindi il cinema è raccontare la verità?
Ogni individuo nasce, cresce e muore, ciò che ci sta in mezzo è il cinema: il cinema è un punto d'incontro, il venire in contatto con la vera essenza di ciascuno. Ci sono persone che stanno insieme una vita eppure non sanno nulla l'uno dell'altro, perché non vengono mai a conoscersi davvero.

Come concepisce questi "incontri"?
Spesso si chiede come viene in mente l'idea di un film, e quasi sempre i registi rispondono raccontando una storia. Ma non c'è nulla di vero, quella storia è solo un post-factum, qualcosa che inventi a posteriori. È come una storia d'amore, devi viverla in quel momento. Se non sei presente, chi è al tuo fianco se ne accorge, e soffre. Perché non vogliamo essere presenti? Perché entreremmo nell'intimità di noi stessi e scopriremmo molte cose di noi che probabilmente non vogliamo sapere. Sarebbe come venire in contatto con il cosmo, mentre noi vogliamo solo continuare ad alimentare le nostre storie.

Con i tuoi film hai ricevuto molti riconoscimenti, vincendo premi (come quello di Un certain regard a Cannes, nel 2005, per The Deaht of Mr Lazarescu) e conquistando molto spesso gli elogi della critica (penso all’accoglienza di Sieranevada lo scorso anno, sempre a Cannes). E ora, qui a Lucca, hai ricevuto un premio alla carriera…
I premi non sono importanti. Un premio è un altro modo per dirti, «prego, ora esci di scena, grazie». Credo che il cinema sia sopravvalutato, per questo mi stranisco quando mi chiamano "maestro". Un vero maestro per me è un genio come Michelangelo Buonarroti. Io non mi sento un maestro. I festival, questi sì, sono importanti, proprio perché sono punti d'incontro. Ma anche quando si trova questo punto di contatto, ci saranno sempre cose che non riuscirai a dire: l'ineffabile. È per questo che continuo a fare film: per ricercare l'ineffabile.