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Intervista a Luca Guadagnino: We Are Who We Are

Abbiamo intervistato Luca Guadagnino, regista della bellissima serie We Are Who We Are (in onda su Sky lo scorso settembre), prima incursione nella serialità televisiva del regista italiano e storia, ambientata in una base militare americana del nordest, del legame d'amicizia e amore fra due adolescenti incerti del proprio destino e della propria identità.


La prima cosa che colpisce in We Are Who We Are è l'ambientazione, una base americana su suolo italiano, un luogo particolare, presente eppure quasi invisibile, sospeso e incerto… Com’è nata l’idea della location?

Quando mi è stata prospettata la possibilità di debuttare nella serialità con una storia di adolescenza inquieta, liquida, mi è stato anche proposto di ambientare l’eventuale lavoro in una qualsiasi cittadina della periferia americana. Da regista, però, non mi piaceva la genericità di quell’ambiente, l’impossibilità di mettere in pratica una cosa per me fondamentale: creare, cioè, un contesto sentimentale, narrativo ed emotivo che funzioni come la parte per il tutto, che riconduca a uno spazio fisico unico e concluso. Da questo senso di frustrazione è nata l’idea della base militare americana in Italia. Per me la messinscena deve sempre mostrare l’invisibile, inteso sia in senso letterale, come occasione per portare sullo schermo qualcosa che ha poche possibilità di essere visto, sia in senso ideale, in quanto materia che ammanta le cose senza mostrarsi. La base militare americana era perfetta: un luogo unico, complessivo, adatto alla rappresentazione di entrambi gli aspetti dell’invisibile.

Com'è stato avvicinarti al paesaggio e alla cultura del nordest?

Inizialmente sembrava che potessimo girare presso la caserma Ederle di Vicenza, e la cosa mi faceva piacere perché mi dava la possibilità di esplorare un mondo che conosco bene ma che non ho mai raccontato al cinema (l’ho fatto nei videoclip, lavorando con Elisa). Quando poi abbiamo perso il sostegno del Dipartimento di difesa americano ho comunque insistito perché tenessimo il set in quelle terre [la serie è girata nell'ex base militare di Bagnoli, nel padovano, ndr]. Se c’è una cosa che trovo potente del nordest è la sua luce, e per me la luce ha un ruolo fondamentale: non potrei mai girare in luoghi scelti per questioni di budget o di opportunità, ma solo laddove posso lavorare con la luce e gli ambienti.

Da un punto di vista narrativo, è stupefacente il modo in cui usi il tempo in maniera libera e controcorrente alle abitudini o alla regole della serialità: divaghi, assecondi i personaggi, rinunci a una narrazione che forza gli eventi...

Non conosco le regole della serialità, perché non conosco la serialità; l’unica che mi ha interessato è quella di HeimatBerlin AlexanderplatzTwin Peaks. In ogni caso non mi sono mai piaciute le regole al cinema. L’idea di organizzare sistematicamente la messinscena nasce nell’industria hollywoodiana, come forma di controllo e come strategia per dare al pubblico un prodotto riconoscibile, ma da cineasta non ho mai parlato quel tipo di linguaggio, trovandolo antitetico rispetto a ciò che ho imparato guardando e studiando il cinema e ascoltando chi il cinema l'ha fatto in una maniera che sento anch’io mia. Se penso a Rossellini, a ciò che ha fatto e a come ha lavorato, quasi m'imbarazza sapere che esiste un modo di fare cinema seguendo delle regole. Semplicemente, faccio ciò che mi piace fare avendone il privilegio e la libertà.

Stilisticamente cerchi una morbidezza di sguardo, una vicinanza ai personaggi e un pudore già sperimentato in Chiamami col tuo nome: come hai costruito visivamente e narrativamente la serie?

All’inizio avevo pensato di utilizzare per ogni episodio una forma e un punto di vista specifici, facendo molti test con gli attori e con il direttore della fotografia. Vedendo i risultati, però, scorgevo un’urgenza che veniva stritolata dalla pretestuosità dell'approccio. Così ho cambiato idea e mi sono affidato ai personaggi e al modo in cui sarebbero cresciuti nel corso della serie. Per me vale sempre la regola di Polanski: si va sul set e si osserva la realtà fenomenologica da mettere in scena partendo prima di tutto dalla performance degli attori; solo quando quest’ultima avrà trovato una ragione d’essere autentica anche la macchina da presa saprà trovare il solo posto possibile in cui stare.

Chiamami col tuo nome era un film sul passato, legato alla dimensione del ricordo. We Are Who Are, invece, lavora sul presente e sul divenire: sei d’accordo?

Chiamami col tuo nome ha anch’esso un legame col presente: il fatto che si svolga nel 1983 non implica che non sia calato nel tempo dei suoi personaggi. Nel film non c’è uno sguardo nostalgico, ma, piuttosto, nel finale c'è la nostalgia verso un’estate finita e con la quale è necessario fare i conti, considerandone la fallacia e la fragilità. È inevitabile comunque che in We Are Who We Are l’ambientazione nel 2016 generi una sensazione di aggancio maggiore al nostro tempo, dal momento che i corpi, gli eventi e i comportamenti sono quelli di oggi. Questo dipende anche dal fatto che abbiamo girato con una camera digitale, una Red, che fa sentire tutte le vibrazioni dell’elettronica. Chiamami col tuo nome era girato in pellicola e ha senza dubbio un’altra vibrazione.

Fraser e Caitlin, i protagonisti di We Are Who We Are, sono più svagati di Elio, il protagonista di Chiamami col tuo nome: vivono nell’attimo, sono incerti e al tempo stesso assoluti; tant’è che tu dedichi a loro, e solo a loro, l’ultimo bellissimo episodio della serie, congedandoti da entrambi stringendoli in una sorta di ideale iride. Come li hai creati, come li hai filmati, e come ti sei relazionato con i due giovanissimi interpreti, Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamón?

Un modo di approcciarsi ai personaggi è ad esempio quello di ascoltarli, di farli suonare, vibrare, attraverso il corpo e attraverso l’identità dei loro interpreti. Quindi ho cercato non solo di dialogare idealmente con i personaggi, ma anche di avere un rapporto continuo, proficuo con Jack e Jordan. La parte finale a Bologna è stata girata il penultimo giorno, ed era molto bello e commovente vedere sia l’iride stringersi attorno a Fraser e Caitlin, sia assistere all’esperienza dei loro interpreti, anch’essi nel frattempo profondamente cresciuti e cambiati.

A proposito del tuo cinema si è parlato di «critofilm» per il modo in cui rimodelli i tuoi riferimenti. In tal senso, anche We Are Who We Are è ricco di rimandi, non necessariamente di citazioni e di omaggi. In particolare, fa pensare un po’ a sorpresa all’ultimo Kechiche. Come ti rapporti con il cinema che vedi da spettatore?

L’espressione «critofilm» per il mio cinema l’ha usata per primo Roberto Silvestri, e gliene sono grato. In generale, comunque, la maggior parte dei cineasti che amo gira dei «critofilm»: pensiamo soltanto ai protagonisti delle Nouvelle Vague… Per quanto riguarda Kechiche, invece, devo ammettere che è un cineasta che non seguo, ma sono contento che nel mio lavoro ci sia qualcosa del suo cinema, perché significa che l’inconscio di un regista si muove liberamente e che ogni visione non può mai essere razionalizzata. Non credo comunque che la questione sia legata alla dimensione dello spettatore: chiunque di noi lo è, spettatore, e le stesse Histoire(s) du cinéma di Godard, se ci pensi, per quanto realizzate da un demiurgo assoluto dell’immagine, sono di per sé stesse un enorme catalogo che riflette sulla posizione dello spettatore. Secondo me, nonostante negli ultimi trent’anni il sistema audiovisivo abbia fatto di tutto per distruggere il concetto di cinema, trasformandolo da linguaggio a stile e a racconto visuale (una cosa evidente quando si considera il modo in cui il modo e lo stile dei film anglosassoni ha avvelenato ogni cinematografia nazionale), l’unica possibilità per il cinema di trovare ancora una sostanza risiede nel tornare al cinema stesso. Come diceva Rossellini, il cinema è una chiave per interpretare il reale e per provare a scorgerne la verità. Pensare perciò il cinema pensando al cinema è il solo modo per aderire in modo politico ed etico a una visione della realtà che non sia consolatrice o non passi attraverso un meccanismo di seduzione.

Come si inserisce un prodotto come We Are Who We Are nel contesto produttivo della serialità?

Onestamente non saprei. Come dicevo prima, io sono abbastanza privilegiato, perché da quando ho cominciato a fare questo mestiere, vivendolo in maniera viscerale, ho sempre cercato di fare solo ciò che mi rendeva felice. A parte quando ho realizzato spot pubblicitari, non ho mai dovuto sottostare ad alcuna forma di compromesso. Quando si tratta di fare cinema o tv, faccio esattamente ciò che m'interessa. Non ho alcuna forma di retro-pensiero su come accontentare un capo-servizio o uno spettatore e né mi è mai capitato di essere messo sulla graticola dai finanziatori. Quindi non mi sono mai posto la domanda su quale sarebbe stato il posto di We Are Who We Are: semplicemente l’ho fatto.

Ci parli delle scelte musicali della serie, come sempre ricchissime: sei d'accordo se dico che i tuoi film sono una raccolta, un archivio di passioni, sempre però legate ai personaggi?

No, quei pezzi non sono le mie passioni. Odio quei cineasti che sparano le playlist dei loro pezzi preferiti. Io non lo faccio mai, piuttosto inserisco le cose a partire dall’identità del film, dalla sua sostanza. Tutto nasce dei personaggi, che devono accogliere accanto a sé la musica stessa. La musica così diventa un personaggio in più, o forse più personaggi. Nel caso di We Are Who We Are sono diversi: c’è quello musicale, che funziona come il coro di una tragedia greca (e penso ai pezzi di John Adams, di Henri Dutilleux, di Julius Eastman o alle musiche composte per lo show da Devonté Hynes); c’è il doppione dei protagonisti, che esprime e riverbera le loro personalità (e quindi Frank Ocean, Kendrick Lamar e tutta la stagione del rap e della trap presente nella serie); infine c'è il genius loci, il musicista che appare nel luogo in cui ci troviamo, che in questo caso è Blood Orange, di cui viene riprodotto un video e che appare nel concerto finale. Nulla di tutto questo appartiene a una mia passione che avrei l’occasione di inserie nei miei film: onestamente sarebbe una visione un po’ ristretta.

Un’ultima cosa su The Staggering Girl, il corto girato per Valentino: ancora una volta colpisce il modo in cui elabori in chiave creativa il tuo stupore da spettatore, in questo caso per Un’altra donna di Woody Allen.

Sì, quel film è un omaggio a Un’altra donna. Sbaglia chi pensa che quella stagione di Woody Allen sia una reinterpretazione imbolsita e americana di Bergman. Quelli compresi fra Interiors e Mariti e mogli sono i film meravigliosi di un cineasta newyorchese ed ebreo, un uomo laico e pieno di nevrosi, ma straordinariamente generoso.