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L'intervista a Kelly Reichardt

Che cos’è, oggi, il cinema indipendente?
In verità non so nemmeno cosa significhi indipendente. E’ un film senza budget? Senza sostegno da parte di una grossa casa di distribuzione? Non bisognerebbe giudicare o etichettare i film in base al loro budget. Odio la parola indipendente, ma se proprio devo definirlo, forse è quel cinema che parla di persone insolite, di personaggi che non vengono trattati spesso. Insomma, non la solita storia dei due amici che si vogliono fare una bionda e allora litigano ma tanto la bionda non la dà a nessuno.

Beh, per indipendente intendiamo esattamente la mancanza di un grosso studio alle spalle.
Ho notato questo: quando mancano i soldi di una grossa produzione, come praticamente in tutti i film che faccio io, il cast s’improvvisa parte della crew tecnica. E’ che hai un tempo limitatissimo, e un attore, per quanto famoso, non può rimanere isolato nella sua camera. Per esempio, in Night Moves, Jesse Eisenberg si è trasformato in un autista anche al di fuori delle riprese, mentre Dakota Fanning ha dato una grossa mano agli scenografi. Questa cosa accadeva anche per il mio film precedente, Meek’s Cutoff. In questi tipi di progetti il legame tra cast e crew si confonde, e diventa molto più forte.

Parlando proprio di Meek’s Cutoff, possiamo dire che in quell’occasione hai scardinato i tòpoi del western, mentre qui in Night Moves lo fai con il thriller.
Avere a che fare coi generi è sempre complicato. Quello che faccio è questo: pretendo di partire da un genere, ne prendo diversi tratti, ma poi cerco di portarli in territori nuovi e inesplorati. Mi sono guardata tantissimi thriller prima di girare Night Moves, e infatti la direzione di partenza sembrerebbe quella. Ma poi, quando ormai credi di poter prevedere come andrà a finire il film, ho cercato di cambiare improvvisamente direzione, portando gli spettatori in una zona più scomoda e destabilizzante. Spero di esserci riuscita.

Com’è nata la storia di Night Moves?
E’ tutto partito da Jonathan Raymond, il mio co-sceneggiatore. Lui ha degli amici che possiedono una fattoria nell’Oregon e ci ha passato un po’ di tempo in vacanza. Da lì ha tirato fuori una storia d’amore e me l’ha proposta. Le "love story" non sono proprio il mio piatto forte e quindi, una volta che l’ho raggiunto nella fattoria, la storia d’amore è stata trasformata pian piano nella storia di Night Moves. Mi interessava parlare di ragazzi così giovani da non rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni, che attraversano il sottilissimo confine tra attivismo e terrorismo.

Il tuo è un film pieno di silenzi. Come hai fatto con Jesse Eisenberg, che è famoso per la sua parlantina velocissima?
(Ride). E’ vero, parla velocissimo. Ho dovuto rallentarlo tantissimo, e lui rispondeva: “Cosa?”.

Dai spazio per l’improvvisazione agli attori?
No, noi seguiamo una sceneggiatura, perché la sceneggiatura esiste per quello. A volte osservo il loro training preparativo per il ruolo, e se qualcosa mi interessa, posso cambiare il testo. Ma questo non significa che l’attore sia libero di scrivere i propri dialoghi, questo non succede mai. L’importante è che si instauri un rapporto di fiducia tra regista e cast. Jesse è una persona molto analitica e tenta di scavare il più possibile nel suo personaggio, discutendone per ore con te. Dakota invece è molto più riservata: si chiude per un po’ nella sua stanza, ma quando esce è già dentro il personaggio.

Tu ti consideri parte dell’industria cinematografica americana?
Assolutamente no. Io insegno cinema all’università per vivere. I film li giro mentre sono in vacanza (ride). Non ho la minima idea di come funzioni l’industria, so solo che per una donna è ancora molto difficile entrarci, e questo perché il sistema è pieno di maiali (ride).