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Nuri Bilge Ceylan: masterclass (Festival del cinema europeo di Lecce)

Cechoviano, eternamente in dubbio, verista: così, potendo riassumere se stesso e il proprio lavoro, sceglierebbe di definirsi Nuri Bilge Ceylan, che in questi giorni ha preso parte con una masterclass al 18° Festival del cinema europeo di Lecce.

Come Cechov, suo indiscusso autore preferito, Ceylan ha per obiettivo primario quello di raccontare nei propri film la vita e i sentimenti più impercettibili che piegano e attraversano l'uomo, le molteplici sfaccettature dell'animo. «Nei racconti dello scrittore russo», ha detto durante l’incontro moderato da Ferzan Ozpetek, basta «un singolo breve istante o l'entrata in scena di un dato personaggio per sbloccare una lunga e complessa serie di sensazioni e di processi di crescita nel protagonista». Così una donna di angelica bellezza e il tintinnare delle tazze che porta con sé su un vassoio non si limitano più a essere una scelta di regia, ma sono portatori, in Cechov, dell'evoluzione e della maturazione di un bambino, e poi, pensando a un passaggio di C'era una volta in Anatolia, mezzi in grado di indurre un assassino alla confessione.

È l'incomprensibilità dell'animo, dell'istinto, della sensazione, della percezione subitanea e delle cause che scatena, ciò che Ceylan (seguendo il suo mentore letterario) desidera perciò raccontare. «Talvolta mi sembra che l'insegnamento del maestro russo sia per me ormai imprescindibile: stento a trovare i confini tra il mio modo di rappresentare e il suo. Il regno d'inverno ne è un chiaro segnale». In quest'ultimo lungometraggio, vincitore della Palma d'oro al 67º Festival di Cannes, il rapporto tra il protagonista Aydin e la moglie ruota infatti narrativamente attorno al racconto di Cechov Mia moglie, mentre stilisticamente si struttura come una minuziosa e attenta indagine di ogni incrinatura di un amore, in una maniera che – come ha suggerito Ozpetek – sarebbe piaciuta allo stesso Cechov, per somiglianza d'intenti e comunione di strumenti.

Una ricerca dell'umanità vera e imprevedibile, che spinge Ceylan a discostarsi nettamente da qualsivoglia etichetta che riduca i personaggi in buoni o cattivi: «Hollywood ci ha insegnato che l'essere umano è statico, è una maschera con comportamenti prefissati e prevedibili. Io invece credo – e di questo faccio un caposaldo del mio cinema – che tutto sia in continuo mutamento».

Un insegnamento che viene da un altro grande letterato russo: Dostoevskij. Nessuno, nel cinema di Ceylan, può dirsi così puro da non peccare mai o così malvagio da non cedere mai ad atti di buon cuore. Niente, nel cinema di Ceylan, può dirsi schematizzabile, prefigurato. «I miei personaggi nascono tutti da lunghi processi di elaborazione sul campo, in corso d'opera, non hanno mai un disegno a cui attenersi. Così anche ogni mia sceneggiatura, che, attraverso un continuo confronto con i miei collaboratori, subisce decine e decine di cambiamenti. Persino i titoli dei miei film non sono definiti fino a quando non vengono stampati su un cartellone. Per esempio la mia prossima pellicola si dovrebbe intitolare "Il pero selvatico". Ma magari no. C'è ancora tempo per dei ripensamenti».

Questo interesse per le trasformazioni, unito a un'aristotelica convinzione che solamente il dubbio possa portare alla "verità", fanno sì che il regista turco arrivi solo nel montaggio a una reale scrittura dei propri lungometraggi: dopo aver girato centinaia di possibilità differenti d’inflessione in una frase, di espressione, di andamento della scena, quindi, si giunge all'effettiva selezione di ciò che più si avvicina a una buona espressione dell'umanità.

Un esempio interessante ne è la discussa scena di C'era una volta in Anatolia in cui una mela cade dall'albero, rotola fino a un ruscello, la cui corrente la porta a ricongiungersi ad altre mele in decomposizione. «Per un po' ho pensato di non farla così. Ho pensato di tutto, anche l'esatto opposto: la mela avrebbe magari dovuto scivolare via, nell'acqua, senza ammonticchiarsi agli altri frutti. La scelta decisiva l'ha fatta il modo in cui lì per lì interpretavo la vita».

Ricollegandosi proprio a questa stessa scena è possibile perciò dedurre due grandi capisaldi stilistici di Ceylan: innanzitutto la fondamentale presenza dell'istinto nell'operare le scelte, che lo porta a discostarsi da molte delle critiche e delle aspettative che su di lui ci si creano; poi la capacità interpretativa di una realtà oggettiva che può farsi portatrice di un messaggio più intimistico. Da un lato quindi il frutto nel suo percorso non va a sbattere contro un cadavere, come potrebbe succedere in un thriller classico, ma si unisce semplicemente ad altre mele e con loro marcisce, diventando espressione di un intero ciclo esistenziale; dall'altro il suo cinema non parte mai da un'idea di realtà prestabilita (un melo, una mela…), ma si imbatte in presenza reali (un melo o una mela colti nella loro unicità, nel loro momento) per coglierne le possibilità espressive in senso metaforico.

Ceylan non piega dunque mai il suo lavoro a delle richieste esterne: non sceglie un luogo perché riconoscibile, ma anzi, immerge le sue trame in paesaggi che possano correlarsi solamente allo stato d'animo dei suoi personaggi, epurandoli il più possibile da ogni tratto distintivo attraverso la semioscurità o la presenza della neve (che cancella ogni colore). Non declina il racconto secondo tradizionali tempi cinematografici, ma anzi, si serve della distruzione e della dilatazione di questi per esprimere quella ricerca interiore e individuale che caratterizza tutte le sue pellicole. Non ricerca, ancora, malgrado i tentativi di lettura di molti critici, un mezzo per trasmettere un messaggio politico, ma si interessa al solo individuo.

Ogni aspetto cinematografico è, nella sua opera, dedito all'indagine individualistica, ma al tempo stesso (e paradossalmente) sceglie di negarsi totalmente la possibilità di sfociare nell'irrealistico: «Sono comunque un verista», dice ancora. «La mia immagine è sempre reale, così come il suono deve essere libero dalle colonne sonore».