Lucas Belvaux

A casa nostra

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Un’alba risveglia Hénart, cittadina fittizia del Nord-Pas-de-Calais, la regione più settentrionale della Francia, ai confini con il Belgio e ai margini dell’Europa che conta. Mentre la prima luce del giorno si diffonde, alcune automobili attraversano lo schermo e un trattore, arando un campo, trova una bomba inesplosa, il fossile di una delle mille guerre che hanno attraversato la zona. La metafora, talmente esplicita, precede la storia e detta le regole d’ingaggio.

L’infermiera Pauline, recandosi da una paziente, la trova morta e con calma professionale chiama i soccorsi; la radio sciorina i dati di una crisi permanente; il lavoro non c’è, l’economia boccheggia. La bomba, la morte, la disperazione sociale: si vive nella normalità di una quotidiana emergenza.

Pauline intanto continua il giro dei pazienti, tocca con mano le diseguaglianze sociali e culturali che in un’epoca ferita generano conflitti e incomprensioni. Ha due figli che cresce da sola, un marito perso da tempo tra droga e cattive compagnie, un padre vedovo e malato, ex operaio comunista intossicato dall’amianto e dalle delusioni politiche.

Una sera il vecchio medico di sua madre la convoca inaspettatamente a cena per una proposta: il suo partito – una fotocopia fiction del Front National di Marine Le Pen – sta cercando facce nuove per le elezioni locali, in cerca di un rinnovamento superficiale che allontani l’odore di razzismo fascista dal naso degli elettori. Vuole che sia lei a correre per la carica di sindaco: volto pulito, impegno sociale, con il cuore ipoteticamente a sinistra ma ormai delusa da tutto e da tutti, cresciuta in tempi in cui il disamore per la politica ha abbattuto, oltre le ideologie, anche ogni appartenenza di classe. Pauline inizialmente tituba, gratificata ma estranea a quel mondo che di colpo la corteggia, cedendo invece alle lusinghe del suo vecchio amore del liceo, rincontrato quasi per caso.

Nella prima parte di A casa nostra, Lucas Belvaux (qui l'intervista a proposito del film, ndr) tratteggia il ritratto di una donna abituata a cavarsela nella disillusione e nella solitudine e improvvisamente al centro di un desiderio – politico e amoroso – che non sa bene come gestire. Pauline scopre piano dentro sé, più che l’attaccamento alla Patria e ai valori (parole tronfie enunciate dalla biondissima leader nazionalista come fossero degli slogan dopati), un orgoglio di rivincita personale, l’occasione insperata di essere nuovamente felice. Belvaux coglie, nel sorriso sempre più aperto e ostentato di Pauline, la rivincita personale di una giovane donna piegata troppo presto alla rassegnazione.

Il contesto in cui si muove è però lo specchio – e la parte più ovviamente politica – del racconto. L’adesione incondizionata di alcune amiche alla sua candidatura, il razzismo strisciante che trapela tra le righe dei discorsi o tra le risate irrigidite di un barbecue in giardino, gli inquietanti siti internet che incitano all’odio razziale ideati da ragazzini mossi più dalla noia che dall’odio: il paesaggio sociale è una distesa bruciata, terreno di conquista per i campioni del populismo aggressivo.

Pauline scivola lentamente in una sorta di trance ipnotica: confonde la percezione di sé e del mondo che la circonda e intanto viene manovrata come un burattino dai leader che l’avevano sedotta. Le cambiano pettinatura e abiti, le impongono abitudini e frequentazioni. La libertà del popolo, che ricorre come un mantra nei comizi della pseudo-Le Pen, s’inchina a un autoritarismo decisionale che non ammette deroghe. L’odio politico, ridotto a uno sterile urlo di parole d’ordine rabbiose, si propaga come un virus che contamina e ammala, distruggendo amicizie, famiglie, classi sociali.

In questa demolizione autoinflitta del quotidiano sta la forza di A casa nostra, che invece si fa più prevedibile nella scansione degli snodi narrativi, risolti con trovate più ovvie e risapute: la rivelazione del passato neonazista del fidanzato, la (ri)presa improvvisa di coscienza della protagonista, la descrizione di una generazione di giovani violenti eterodiretti dalla solita élite, si susseguono senza scossoni pur mantenendo una certa urgenza di denuncia.

Belvaux si trova più a suo agio nella rappresentazione dell’umanità singola, alle prese con la propria questione morale, che nella descrizione di un nuovo mondo politico corruttore e corrotto, monolitico fino alla caricatura. A casa nostra, quindi, sotto la scorza dell’ovvio interesse di cronaca (e in attesa del risultato delle elezioni francesi), è un film che incita alla responsabilità individuale, indaga sulla seduzione fatale innescata dalla debolezza, spinge a un rinnovato modo di stare insieme (a cui occhieggia la bella sequenza dello stadio nel prefinale). Un film che parla al nostro presente con piglio illuminista, non privo di qualche banalità e di qualche ruggine di sceneggiatura, diretto con stile sobrio e monocromo, sostenuto e ispirato dalla magnifica interpretazione della sua protagonista, Émilie Dequenne.

A casa nostra
Francia, Belgio, 2017, 117'
Titolo originale:
Chez nous
Regia:
Lucas Belvaux
Sceneggiatura:
Lucas Belvaux
Fotografia:
Pierric Gantelmi d'Ille
Montaggio:
Ludo Troch
Musica:
Frédéric Vercheval
Cast:
André Dussollier, Anne Marivin, Catherine Jacob, Charlotte Talpaert, Émilie Dequenne, Guillaume Gouix, Patrick Descamps
Produzione:
Artémis Productions, France 3 Cinéma, Synecdoche
Distribuzione:
Movies Inspired

Pauline, un'infermiera a domicilio tra Lens e Lille, si occupa dei suoi due figli e del padre, un anziano metalmeccanico militante comunista. Pauline è una persona generosa, amata dagli abitanti della sua piccola città nel nord della Francia e tutti i suoi pazienti contano su di lei. Approfittando della sua popolarità, la leader di un partito estremista le proporrà di diventare il candidato alle elezioni comunali...

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