Andrej A. Tarkovskij

Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera

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Dice Andrej Andreevič Tarkovskij in un’intervista in cui discute del padre e del progetto di un documentario sulla sua vita: «Sono stati molti e originali i tentativi di spiegare il “fenomeno Tarkovskij” nell’arte contemporanea. Ma cosa ne pensava Tarkovskij stesso?».

In Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera il figlio documentarista Andrej Andreevič fa proprio questo, affrontando la materia-Tarkovskij secondo un approccio olistico (si passi il termine) in cui è realmente il tutt’uno dello sguardo sul padre cineasta a governare gli snodi, le giunture e gli intrecci tra l’uomo, l’artista, il pensatore politico, il filosofo, il poeta, il creatore della sua opera cinematografica, per poter poi fare ritorno al padre, l’uno che presiede a questo sistema di cose e valori.

La traiettoria del documentario è lineare e segue la cronologia della biografia: evoca l’apprendistato studentesco alla VGIK (Scuola superiore di cinematografia) di Mosca con il maestro Michail Il’ič Romm, ovvero alla scuola del realismo socialista, di cui Tarkovskij ovviamente non condivideva quasi nulla; e l’incipit della carriera con il mediometraggio Il rullo compressore e il violino (1960), curioso già di per sé per il soggetto, poco organico nel panorama predominante del cinema sovietico post-bellico.

Dunque la figura di Tarkovskij appare da subito contraddistinta dal destino dell’uomo che attua precise scelte di campo, un’anima in perenne contrasto con il pensiero unico, politico quanto stilistico-cinematografico tout-court: come perno dello sguardo che Aleksenij vuole dare al suo documentario c’è l’indissolubilità della saldatura tra l’uomo e l’artista quanto, in secondo luogo, la qualità autobiografica che emerge dai paralleli tra i film e l’uomo; come viene detto nell’intervista, delle «otto opere che ha realizzato ognuna è stata un evento, ed è difficile separare le due cose […]».

Il film è fatto dalla pluralità di forme dei suoi materiali: audiotapes, foto di famiglia, nonché dipinti ad olio impressionisti o disegni a carboncino di mano paterna, oggetti, persino gli schizzi e le planimetrie della casa di campagna-buen retiro fatte a mano lavorano allo specchio – tanto per tendere un filo con il film che più diventa un paradigma di questo documentario – con il cinema contendendogli una scrittura sovrapposta, quella dell’autobiografia per l’appunto che si salda al vertice di un lavoro documentaristico diviso in otto capitoli.

Guardiamo e ascoltiamo un Tarkovskij teorico del cinema che ci conduce per mano alla problematica del Tempo, nel suo senso «filosofico, poetico e letterale», nel cinema e nella cultura che il cinema è portato a registrare, con il suo «speciale significato poetico», come incaricato di comprendere una parte della vita e dell’Universo: si parla del Tempo con l’esempio dell’Amleto shakespeariano che si annulla per gli altri, nel Tempo, anzi «correggendo il Tempo fuori dai suoi cardini» come ama ripetere Tarkovskij, si sporca macchiandosi le mani di sangue per la giustizia e se ne parla con parole che risuonano come un altro rimando autobiografico alla sua vita di uomo e artista contro.

Così anche prende spazio l’«aspetto religioso della sua personalità e del suo lavoro», e del cinema sicuramente come questione privata e, inevitabilmente soprattutto a partire da un certo punto in avanti, politica. Parla di crisi culturale del Paese, compresa alla luce dell’idea che «il vero poeta, se è un poeta, non può essere un non credente» e che «la cultura non possa esistere senza la religione» in un processo di sublimazione interdipendente esistente tra le due; la perdita di significato della vita risiede così nella perdita dell’ultimo artista poiché «se la società ha bisogno di spiritualità inizia a produrre opere d’arte».

Il cinema come preghiera è quindi una complessiva questione vitale e famigliare per Aleksenij Tarkovskij, con una sua traiettoria lineare di racconto si diceva all’inizio, ma in fine poi à rebours (come capita sovente con le migliori cose che si intrecciano con il ricordo e il passato) disegna un arco dalla culla alla morte e viceversa con le fotografie del padre infante-anziano-infante: un’immagine sinottica “da a”, come accade al suo cinema che, lo ricordiamo, tra l’inizio di L’infanzia di Ivan e l’epilogo di Sacrificio si racchiude tra le inquadrature di due alberi; l’albero rifiorito simbolo per di più, nella psicoterapia, del ritorno alla memoria delle persone che abbiamo amato e che abbiamo perduto, collocate in uno spazio/tempo virtuale. Ma particolarmente in quello di Sacrificio, sui cui rami appare la dedica di Tarkovskij al figlio: «Con speranza e fiducia».

Andrej Tarkovskij. Il Cinema come preghiera
Italia, Russia, Svezia, 2019, 97'
Titolo originale:
Andrey tarkovsky. A cinema prayer
Regia:
Andrej A. Tarkovskij
Fotografia:
Alexey Naidenov
Montaggio:
Andrej A. Tarkovskij, Michal Leszczylowski
Produzione:
Andrey Tarkovsky International Institute, HOBAB, Klepatski Production, Revolver
Distribuzione:
Lab80

Andrej Tarkovskij, regista geniale, i cui film sono considerati capolavori del cinema mondiale, ci ha lasciato otto pellicole e l’interesse e il desiderio sempre più crescenti di comprendere la sua l’opera. Il film racconta la vita e l’opera di Tarkovskij lasciando la parola al regista stesso che condivide i suoi ricordi, il suo sguardo sull’arte, le riflessioni sul destino dell’artista e sul senso dell’esistenza umana. Grazie a rarissime registrazioni audio, lo spettatore può immergersi nel misterioso universo del suo immaginario cinematografico, comprendere e ripensare l’opera e il mondo interiore del Maestro. Il racconto è accompagnato da registrazioni inedite di poesie di Arsenij Tarkovskij, uno dei più grandi poeti russi del Novecento e padre del regista, lette dallo stesso autore. L’opera poetica di Arsenij ha sempre influenzato il cinema di Andrej, sottolineando il profondo legame culturale e spirituale tra padre e figlio.

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