André Øvredal

Autopsy

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Il cadavere di Jane Doe è bellissimo. Bellissimo e inerte, e per questo magnetico.

Adagiato sul lettino delle autopsie della morgue gestita da Brian Cox e suo figlio Emile Hirsh (bravi, umani, credibili), è centro e baricentro di tutto il racconto: di un racconto che poi si snoda lungo i corridoi del claustrofobico sotterraneo teatro dell'azione, ma sempre e solo come emanazione (magica, psichica, alchemica) di quel corpo bellissimo. Anche quando quel corpo viene aperto, esaminato, interrogato sui segreti orribili che contiene.

Perché il cadavere di Jane Doe è bellissimo, fuori: ma dentro porta i segni indelebili di dolore, sofferenza e crudeltà. C'è qualcosa del Ritratto di Dorian Grey, in Autopsy, in questo corpo carico di mistero, sempre perfetto e integro all'esterno, ma con un interno che racconta tutta la violenza subita in secoli di vita.

Che quel corpo (dell'attrice irlandese Olwen Catherine Kelly) sia centro e baricentro del suo film, il norvegese André Øvredal lo sa benissimo e lo dimostra di continuo, facendovi tornare ossessivamente la macchina da presa, piazzando primi piani di quel viso bianchissimo e seducente anche quando i suoi protagonisti vivi sono altrove: quando si distraggono, quando vengono attirati da sirene ingannatrici, quando tentano la fuga.

Qualsiasi cosa succeda nel film, Øvredal torna al cadavere di Jane Doe, come al cadavere sono costretti a tornare sempre Cox e Hirsh, senza alcuna possibilità di evadere dal suo magnetismo, e anzi costretti (almeno uno di loro) all'estrema vicinanza empatica e mortale.

Liberare qualcuno dalle sue sofferenze, facendosene carico, e salvando gli altri: cristologia, anyone?

Eppure, nonostante questa presenza cadaverica, concreta e immanente, Autopsy è un film fatto di vuoti e di assenze, di spazi da riempire, più che da presenze più o meno fantasmatiche. Un film sull'attesa di qualcosa, esattamente come era il precedente film del norvegese, quel piccolo gioiellino di Trolljegeren, che sull'attesa basava tutta la sua storia e la sua forza.

Dopo aver dimostrato in quel caso di saper gestire con intelligenza un genere capace di stancare facilmente come il found footage (di cui Trolljegeren rimane uno degli esempi migliori), qui Øvredal abbandona quella nervosa sporcizia formale e gira invece con una linearità classica e goticheggiante che fa il paio con delle scenografie quasi da antiquariato – ma senza cadere nel fighettismo vintage. E nonostante questo cambio di registro estetico conferma un talento non comune nella costruzione di atmosfere e tensione, che un crescendo lento e inesorabile avvolgono e coinvolgono lo spettatore.

Certo, non rinuncia a qualche jump-scare, il norvegese: ma con estrema moderazione, mica abusandone come un James Wan qualunque. Perché, appunto, il suo è un film di attese e di assenze, dove lo spavento e la paura nascono da quello che potrebbe essere (e spesso non è), più che da quello che è, realmente o meno. E difatti, quando le esigenze narrative impongono reificazione, quando si arriva al dunque, questo risultato è meno efficace della sua preparazione.

Non rinuncia nemmeno all'ironia sottile, Øvredal, con l'utilizzo della divertente nenia infantile di Open Up Your Heart (And Let the Sunshine In) nella versione delle McGuire Sisters: un motivetto che torna, ricorrente, proprio come il cadavere di Jane Doe, aperto ed esplorato con scientifica freddezza e umana pietas sul tavolo dell'obitorio: senza luce del sole che gli risplenda dentro, ma col nero nella magia che invece ne fuoriesce invisibile e implacabile.

Sempre lì, si torna, a quel cadavere bellissimo e perturbante, dotato perfino di una carica erotica perversa sì ma mai morbosa, mai gratuita, mai pornografica. In un film capace di grazia ed equilibrio; che guarda al passato dell'horror per proporre quasi un'ipotesi (pur moderatamente riformista, e non radicale né rivoluzionaria) di traghettamento del genere verso il futuro.

Autopsy
Usa, 2017, 86'
Titolo originale:
The Autopsy of Jane Doe
Regia:
André Øvredal
Sceneggiatura:
Ian B. Goldberg, Richard Naing
Fotografia:
Romain Osin
Montaggio:
Patrick Larsgaard
Musica:
Danny Bensi, Saunder Jurriaans
Cast:
Brian Cox, Emile Hirsch, Jane Perry, Mark Phoenix, Mary Duddy, Michael McElhatton, Olwen Catherine Kelly, Ophelia Lovibond, Parker Sawyers, Sydney, Sydney
Produzione:
42, IM Global, Impostor Pictures
Distribuzione:
M2 Pictures

Il corpo di una giovane donna diventa l'oggetto di analisi di due uomini, padre e figlio, che faranno scoperte inquietanti.

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