Clint Eastwood

Can’t Take My Eyes Off You

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Stabilito che un’azione (o un’opera) ideologica per risultare tale non deve obbligatoriamente essere consapevole - anzi, molto spesso una scelta che si vorrebbe portatrice di un certo valore o di un dato significato, rivela invece un’ideologia opposta - appare evidente come Clint Eastwood sia un conservatore che gira film progressisti. Lo si diceva anche di John Ford e del suo cinema. Ed è un grande abbaglio lasciarsi condizionare dalle prese di posizioni politiche o dallo stile cinematografico assai lineare e “classico”.

Da sempre Eastwood “non può staccare gli occhi” dagli Stati Uniti, spesso mettendone in luce le contraddizioni e le ambiguità, concedendo però ai suoi protagonisti la possibilità di redimersi e di guardare il futuro con speranza.

Con Jersey Boys, adattamento dell’omonimo musical, racconta l’adolescenza piena di slanci e entusiasmi dell’America post-bellica e la sua perdita dell’innocenza nel corso gli anni ’60. Come viene detto da uno dei protagonisti all’inizio del film «per dei ragazzi del Jersey le possibilità erano tre: o andare soldato e farsi ammazzare, o affiliarsi alla mafia e farsi uccidere, o diventare famosi: noi ne avevamo due su tre».

La guerra del Vietnam non viene mai nominata, eppure è il rimosso che corre parallelamente alla parabola dei Four Seasons. L’unica morte alla quale si assiste – per altro fuori campo – è quella di Francine, giovane figlia di Frank Valli. Ragazza di talento, dall’estensione vocale superiore a quella del padre, fragile e appassionata, muore per un’overdose. Ed è uno strano cortocircuito vederla interpretare da un’attrice incredibilmente somigliante alla Lindsay Lohan di qualche anno fa, quando stava per lasciare la Disney e intraprendere una carriera più “adulta”.

In pochi hanno intuito l’iconicità tragica della Lohan, quale diva terminale degli anni 2000. Robert Altman, che l’ha voluta in A Prairie Home Companion (Radio America, 2006), Paul Schrader che le ha assegnato il ruolo della protagonista in The Canyons (2013) e, a questo punto, Clint Eastwood, che per la parte della sfortunata figlia di Valli, ha utilizzato un’interprete che sembra una sua sosia sedicenne. Ma questo non è l’unico cortocircuito sperimentato dallo spettatore nel corso della pellicola, a dimostrazione che per Eastwood il cinema rimane non solo il mezzo attraverso il quale raccontare il suo Paese, ma anche il luogo dove evocare immaginari.

Tutto il repertorio dei Four Seasons ha una freschezza e una leggerezza quasi bambinesca, del tutto priva di sensualità – non è un caso, infatti, che alcune delle loro canzoni fossero state inserite in Dirty Dancing (1987), opera dimenticabile, ma interessante da questo punto di vista, poiché le vicende della protagonista, ingenua e virginale, che diventa adulta scoprendo l’amore, non avrebbero potuto avere colonna sonora più azzeccata.

In un certo senso quel sound, così pulito e “perbene”, non solo rappresenta la loro identità, ma funziona come una sorta di macchina del tempo, che riporta i quattro personaggi agli inizi, quando pieni di belle speranze avevano intrapreso la loro carriera. Per Frank Valli, infatti, il momento di maggior commozione è il ricordo di sé e degli altri, sotto un lampione, per strada, a provare e cercare la “loro musica”.

Invece per lo spettatore - che, se coinvolto, partecipa comunque alla commozione del momento - la scena più toccante è forse quella in cui vede delinearsi la fine dell’innocenza, ossia il momento in cui il protagonista intona Can’t Take My Eyes Off You. E non ha alcuna importanza se per lui quel preciso istante coincide con una risalita e il tentativo di superare il lutto per la perdita di Francine.

Lo spettatore sa che in Jersey Boys, nel ruolo di un mafioso dai toni paterni e, in fondo, di buon cuore, c’è Christopher Walken ed è impossibile non sovrapporre alle immagini di Valli che canta e ritorna alla vita, la scena splendida e straziante di The Deer Hunter (Il cacciatore, 1978) di Michael Cimino, in cui Walken, De Niro, Cazale e Savage, mentre giocano a biliardo in un pub, cantano quella stessa canzone prima di partire per il Vietnam.

Solo allora, attraverso quel cortocircuito, diventa chiaro come Jersey Boys sia in realtà una parabola sugli Stati Uniti, sulle speranze all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, sul sogno americano e sul risveglio, brusco e drammatico (nel Vietnam).

Eppure, nonostante la dolorosa presa di coscienza, la delusione e i fallimenti che hanno contrappuntato i successi di Valli e dei suoi compagni, Eastwood non chiude il film con mestizia, benché una vena di malinconia aleggi anche nel finale, ma decide di riportarli a quell’angolo della strada, sotto il lampione, dove tutto è iniziato, con uno sguardo tutt’altro che paternalistico, riponendo piena fiducia nella spinta propulsiva della giovinezza e nella sua capacità di guardare avanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Jersey Boys
Usa, 2014, 134'
Titolo originale:
id.
Regia:
Clint Eastwood
Sceneggiatura:
Marshall Brickman, Rick Elice
Fotografia:
Tom Stern
Montaggio:
Joel Cox, Gary Roach
Cast:
Alexandria Sounis, Barry Livingston, Michael Lomenda, Sean Whalen, Steve Schirripa, Erich Bergen, Billy Gardell, Mike Doyle, James Madio, Aria Pullman, Kathrine Narducci, Vincent Piazza, Freya Tingley, John Lloyd Young, Francesca Eastwood, Christopher Walken
Produzione:
GK Films, Warner Bros.
Distribuzione:
Warner Bros. Italia

Quattro giovanotti che provengono dalla parte sbagliata del New Jersey si uniscono per formare il gruppo rock icona degli anni 60, The Four Seasons. La storia dei processi e dei trionfi, è accompagnata da canzoni che hanno influenzato una generazione, tra le quali "Sherry", "Big Girls Don’t Cry", "Walk Like a Man", "Dawn", "Rag Doll", "Bye Bye Baby", "Who Loves You" e molte altre.

 

 

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