Yorgos Lanthimos

Dogtooth

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Sono passati ormai più di dieci anni da quando Dogtooth vinse il premio della sezione Un Certain Regard al 62º Festival di Cannes. In quel maggio 2009 non solo il percorso cinematografico di Yorgos Lanthimos ebbe una svolta decisiva, ma quella consacrazione rappresentò anche un momento di rinascita per il cinema greco.

I primi anni Duemila, infatti, sono stati dominati dalle produzioni di Theo Angelopoulos e, in particolare, la sua incompiuta trilogia sul tempo e lo spirito della moderna società greca (La sorgente del fiume, La polvere del tempo) rappresentava ancora il punto di riferimento cinematografico per tutta la Repubblica ellenica. Con la scomparsa del grande maestro, l’incedere della crisi socio-economica e la relativa destabilizzazione politica, il cinema greco si è ritrovato di fronte a un bivio: restare legato alla propria epoca d’oro e proporre solo epigoni, oppure tentare di affrontare le incombenti difficoltà attraverso la sperimentazione di nuovi codici linguistici e canoni estetici. È questa la strada tentata da Lanthimos che con Dogtooth (anche se, per essere precisi, il percorso del regista è iniziato con la commedia O kalyteros mou filos, per poi avere una svolta decisiva con Kinetta) è riuscito a dar vita a una nuova (ed effimera?) new wave cinematografica alla quale, nel corso del tempo, si sono aggiunti registi e registe interessanti tra cui Avranas, Tsangari, Makridis e Zois.

Come ogni altra ondata cinematografica, anche la Queer Greek Weird Wave, per riprendere il titolo di un bel saggio del critico Mario Psaras, è caratterizzata da elementi stilistici comuni e ricorrenti: la ricercatezza estetica basata sull’asetticità, sulla simmetria degli spazi e sul rifiuto delle canoniche tecniche cinematografiche (campo-controcampo, musica extradiegetica, luci evocative ecc.), l’esasperazione angosciosa e grottesca della realtà, il sentimento di alienazione provato dai personaggi, lo spazio scenico minimalista, essenziale e simmetrico costituito da interni vuoti e arredamenti semplici, l’attenzione verso la contaminazione umana della geografia del territorio, tramite l’alternanza tra luoghi urbani e scenari tipicamente mediterranei, l’attenzione parossistica verso i corpi pulsionali dei vari protagonisti.

Dal punto di vista tematico, invece, quello che emerge da questa Queer Greek Weird Wave è il radicale tentativo di mettere in scena la difficoltà della società greca nel costruirsi una nuova identità capace di assimilare e superare le discrepanze presenti nel nucleo familiare, nella comunità e nello Stato. In Dogtooth tutto questo emerge in modo sineddotico: la famiglia, composta da Madre e Padre che trasmettono in maniera distorta e perversa a Figlio, Figlia maggiore e Figlia minore la cultura e le regole sociali, rappresentano un microcosmo distopico e totalitario che fa dell’immunizzazione il proprio cardine identitario.

Tra gli insegnamenti che Padre elargisce ai propri figli, per esempio, vi è la totale inaccessibilità verso un mondo esterno fatto di pericoli e inganni: l’unico che vi può accedere è proprio lui, mentre il resto della famiglia è destinata a vivere nel perimetro della casa e del giardino. La contrapposizione tra esterno/interno, che cela quella più profonda e radicale fatta da heimlich/unheimlich, si manifesta anche in quella tra linguaggio e realtà: nell’educare i propri figli, Padre altera il significato dei vari segni linguistici, per cui “mare” diventa una specifica tipologia di poltrona, "autostrada" un vento impetuoso e “gatto” un essere mostruoso capace di uccidere ogni membro della famiglia. Su questa manipolazione del linguaggio e su come a partire da tale perversione Padre riesca a disciplinare i corpi e le identità dei propri figli si è scritto tanto, così come molte parole sono già state spese sul ruolo della sessualità e sull’architettura normativa imposta da Padre al nucleo famigliare.

Quello che forse si è ancora poco esplorato e che ricorre di continuo in questa nuova ondata cinematografica, è il tema della soggettivizzazione. In Dogtooth i genitori proibiscono ai figli di avere legami con l’esterno: non vanno a scuola, non hanno amici, non sanno cosa sia il telefono, la televisione, e l’unico contatto che proviene dal fuori (e che farà detonare il regime normativo di Padre e Madre) è rappresentato da Christina, giovane addetta alla security, conosciuta da Padre e sfruttata per soddisfare le pulsioni sessuali di Figlio maggiore.

L’identità dei figli, dunque, non si costituisce attraverso il rapporto con l’altro e il diverso, bensì tramite una costante relazione con l’uguale. Tutto ciò che accade nei confini della casa è costantemente ricondotto al simile e al conosciuto, ogni possibile pericolo viene immunizzato mediante la manipolazione linguistica, e la quotidianità famigliare è scandita da una serie di rituali che vengono talvolta traditi solo per essere ulteriormente rafforzati. In questo modo, l’identità dei figli procede su binari stabiliti ed eteronormati: se è vero, infatti, che il sé non è mai solamente una cosa o un oggetto, ma al contrario è l’effetto di un gesto di soggettivizzazione, l’identità dei figli è prodotta da una lunga serie di regole e comportamenti che vengono imposti da Padre e Madre. Questo processo di fabbricazione del sé, tuttavia, subisce un drastico arresto quando Christina, sfruttando l’inconsapevolezza di Figlia maggiore, la convince a fare sesso orale in cambio di alcune videocassette. Curiosamente, ciò che fa esplodere il regime totalitario imposto da Padre non è la potenziale scoperta di una sessualità differente e non irregimentata da parte di Figlia maggiore, ma la visione notturna de Lo squalo, Rocky e Flashdance. L’apertura verso il diverso e l’esterno, quindi, passa attraverso la relazione con un nuovo immaginario: i corpi muscolosi e oliati di Rocky, il sangue e i brandelli dello squalo e la libertà di Alex contribuiscono in maniera decisiva alla decostruzione dell’identità pre-confenzionata di Figlia maggiore – la quale inizierà ad inventare ed elaborare il proprio sé dandosi un nome, “Bruce”.

È il cinema, inteso come dispositivo dell’immaginario, che fornisce a Figlia maggiore l’opportunità di costituire una rinnovata identità e sebbene questa soggettività resistente non riesca mai a formarsi pienamente – poiché Bruce non scardina del tutto le regole e il contesto famigliare, ma lo abita con una nuova consapevolezza conflittuale fatta di compromessi e fratture, – il finale suggerisce la possibile dissoluzione dell’intera struttura normativa ideata da Padre.

Con Dogtooth, quindi, Lanthimos dà vita ad una Queer Greek Weird Wave che nel corso degli anni è riuscita ad affrontare lo smarrimento identitario e la psicopatologia dell’uomo moderno attraverso un’estetica riconoscibile e uno sguardo disincantato che, a dire il vero, ha perso un po’ di quella radicale freschezza a cui questo bellissimo film ci aveva iniziato.

 

Dogtooth
Grecia, 2009, 93'
Titolo originale:
Kynodontas
Regia:
Yorgos Lanthimos
Sceneggiatura:
Efthymis Filippou, Yorgos Lanthimos
Fotografia:
Thimios Bakatakis
Montaggio:
Yorgos Mavropsaridis
Musica:
Grégoire Hetzel
Cast:
Angeliki Papoulia, Anna Kalaitzidou, Christos Stergioglou, Hristos Passalis, Mary Tsoni, Michele Valley
Produzione:
Boo Productions, Greek Film Center, Horsefly Productions
Distribuzione:
Lucky Red

Una famiglia composta da padre, madre e tre figli, vive in periferia in una casa circondata da un grande recinto. I ragazzi non hanno mai oltrepassato il muro che li separa dal resto della città e sono stati educati e istruiti per volere dei genitori senza alcuna influenza dal mondo esterno. L’equilibrio viene spezzato quando il padre, per soddisfare gli istinti sessuali del figlio, introduce in casa un elemento esterno: Christina.

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