Goran Radovanovic

Enclave

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«Io non ho un migliore amico, perché dove abito io non ci sono bambini»: la prima frase di un tema scolastico su “il mio migliore amico”. La prima frase in apertura a Enclave, di Goran Radovanović, che da subito ci catapulta – senza preamboli e riserve – nella situazione: Nenad è un bambino di dieci anni, ed è solo.
Legge il suo compito, incespicando nella sua stessa scrittura, a una platea di sedie vuote, in un’aula che è esclusivamente sua. Ad ascoltarlo c’è solamente la maestra, Branka (ma ben presto anche lei se ne andrà per “cercar fortuna” a Belgrado).

Nenad non ha un migliore amico, ma nemmeno un amico di quelli comuni, con cui ci si ritrova per giocare a pallone. Ha un padre, che passa gran parte delle sue giornate a lavorare nella fattoria di famiglia o a bere; un pater familias autorevole, taciturno, che apre bocca solo quando strettamente necessario o per inveire contro gli albanesi. Ha un nonno, Milutin, con cui ama giocare a domino, ma ormai gravemente malato. E ha Padre Draẑa che, provando compassione per la sua situazione, tenta di risollevargli l’umore come può, tra esercizi di matematica e filastrocche.

«Dove abito io non ci sono bambini», scrive il piccolo protagonista. Eppure non è proprio così: a Vreli ragazzini ce ne sono, il problema è che sono tutti albanesi, mentre lui è un serbo, e le due comunità, nel Kosovo post-bellico, sono tenute ad odiarsi, in nome di tutti coloro che hanno perso la vita nel conflitto. Questo è quanto imparano i bambini, che finiscono per osservarsi da lontano come specie differenti: Nenad dalla finestrella del carro blindato italiano che lo scorta in giro per il paese fino alla sua enclave protetta; gli altri dalle strade, armati di sassi.

“Albanese” e “serbo” diventano insulti, ma finiscono anche per essere le sole cose che ci si dice, in un villaggio immerso nel verde in cui il silenzio – che non è di pace, ma di rancore – è quasi opprimente. Si parla poco, dunque, nel corso del film. Si agisce, piuttosto, ma seguendo sempre una routine: ci si occupa del pascolo, si lavora nella fattoria, si gioca a domino, si va a scuola o dal prete. E così si finisce per essere, forse, un po’ tutti (come Nenad) abbandonati a se stessi e alla propria tristezza. Una solitudine che permea ogni istante e ogni tratto del film, fino alle riprese: quasi sempre primissimi piani che isolano tutti da tutto, o, al contrario, campi lunghi in cui gli esseri umani si disperdono e si intravedono appena.

La contrapposizione delle due comunità raggiunge il suo apice nel momento in cui Milutin muore, mentre a casa di uno dei ragazzi albanesi, Bashkim, si celebra un matrimonio. Il rito funebre serbo, col suo dolore, le sue tradizioni e il nero del lutto, si scontra così – fisicamente, emotivamente, ma anche e soprattutto visivamente – con la gioia, la musica, i balli e il caratteristico colore rosso dell’unione albanese. I due mondi non sono mai stati così distanti, così agli antipodi e incapaci di comunicare. Eppure, nel frattempo, Nenad (inviato a cercare padre Draẑa) si ritrova a giocare a nascondino tra le macerie della chiesa proprio con i suoi “nemici”: Bashkim e altri due bambini albanesi. Si nasconde nella campana appena giunta in paese e non ancora innalzata nell’arrabattato campanile di legno, frutto di una furtiva ricostruzione post-bellica.

La nuova generazione ha saputo trovare un modo per pacificare quell’odio così radicato negli adulti? A rispondere alla domanda sarà Bashkim che, estratta una pistola, darà sfogo alla sua arroganza e alla sua frustrazione per “quei serbi che gli hanno ucciso il padre”, sparando contro la campana (e, idealmente, contro Nenad al suo interno). Un gesto più grande di lui. Maldestramente, infatti, colpisce una corda, imprigionando il ragazzo serbo nella cupola di metallo, e si ferisce ad una gamba. Che spiegazioni dare, ora, a casa? «È stato un serbo», sembra l’unica risposta logica, quella che tutti si aspettano. E la reazione della comunità albanese, musulmana, è quella di bruciare proprio il simbolo della cristianità nemica, il campanile, senza sapere che là in mezzo c’è anche un ragazzino (ma sorge spontaneo chiedersi se, avendolo saputo, avrebbero agito diversamente).

Tutto sembra finito. L’odio sembra aver trionfato.

Eppure, poco dopo, Nenad è di nuovo vivo. Nuovamente in una classe, stavolta a Belgrado, tra tanti ragazzini serbi come lui. Potrebbe essere felice, a casa, tra la sua stessa gente. Ma lo chiamano “albanese”, ora, lo disprezzano, perché viene dal Kosovo. È di nuovo isolato, è di nuovo solo. Nulla è cambiato, neppure il tema assegnato dalla nuova maestra: “Il mio migliore amico”. Nulla è cambiato, o forse tutto è cambiato: stavolta Nenad sembra avere qualcosa da scrivere. Che la risposta sia in quell’albanese che, roso dai sensi di colpa, è tornato alla campana a portargli aiuto e cioccolato, e che gli ha gridato «torna»?

Un film, Enclave, che in qualche modo vuol farsi “pacifico” e mostrare come due comunità in lotta possano trovare un punto d’incontro nell’innocenza e nella spontaneità infantile. Un tema, certo, già visto molte volte (ma qui legato a un conflitto poco conosciuto come quello in Kosovo), eppure poco sviluppato, lasciato forse eccessivamente in secondo piano, liquidato in pochi vaghi istanti finali, per far spazio, piuttosto e con prepotenza, alla lentezza di una vita quotidiana monotona (troppo monotona) e al rancore muto (troppo muto) tra i due mondi.

Enclave
Germania, Serbia, 2015, 92 min
Titolo originale:
Enklava
Regia:
Goran Radovanovic
Sceneggiatura:
Goran Radovanovic
Fotografia:
Axel Schneppat
Montaggio:
Andrija Zafranovic
Musica:
Eleni Karaindrou, Irena Popović
Cast:
Anica Dobra, Miodrag Krivokapić, Nebojsa Glogovac
Produzione:
Nama Filma, Sein+Hain Film
Distribuzione:
Lab 80 Film

Protagonista è Nenad, un bambino serbo che vive a Vrelo, villaggio albanese nel Kosovo post-bellico. Il piccolo abita con il padre e il nonno, gravemente malato, a cui il bambino è molto affezionato. Tutti gli altri bambini del villaggio sono albanesi e uno di loro, Bashkim, è carico d’odio nei confronti di tutti i serbi, che ritiene responsabili della morte del padre. Un giorno, mentre la comunità albanese celebra un matrimonio, il nonno di Nenad muore e il bambino arriva ad attraversare le linee nemiche pur di riuscire ad avvisare il prete. Mentre sulle strade del villaggio matrimonio e funerale si incrociano, Nenad si trova faccia a faccia con Bashkim: nelle mani dei due bambini la possibilità di riprodurre odio e divisione oppure di dare un nuovo corso alla storia.

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