César Augusto Acevedo

I fantasmi del “gótico tropical”

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A un certo punto, uscendo di casa con un lenzuolo che lo protegga dalle polveri che ne impediscono la guarigione, Gerardo gioca a fare il fantasma col figlio. E anche in seguito, nuovamente coperto dal lungo lenzuolo, il personaggio assume un aspetto spettrale.

Potrebbe sembrare un particolare secondario e poco significativo (dopotutto, l’uso del lenzuolo è qui giustificato dalla sua funzione pratica di protezione), ma forse in realtà è la chiave della particolare cifra stilistica adottata da questo film. Che è realistica, in modi che possono talvolta apparire piatti e cronachistici. Ma che si apre – in alcune inquadrature di notevole forza – anche a scorci fantastici. La casa isolata e la minaccia che incombe su di essa come un blob che tutto inghiotte sembrano echi del cinema horror. Nella stessa direzione va anche il richiamo al fantasma, che assume una chiara valenza simbolica – il lavoratore delle piantagioni di canna da zucchero, privo di diritti, è per l’appunto una sorta di fantasma.

Per inquadrare questa sovrapposizione di realismo, denuncia e fantastico è utile fare una digressione su un’esperienza cinematografica che ha sicuramente influenzato il regista di questo film. César Augusto Acevedo viene da Cali e la più importante esperienza cinematografica della zona è rappresentata, negli anni ’70 e ’80 dal cosiddetto “gruppo di Cali”.

Registi come Luis Mayolo e Carlos Ospina, i principali esponenti del movimento, avevano sviluppato la propria attività tra documentarismo e horror, tra smascheramento delle ideologie e cinema di genere, perseguendo quello che è stato chiamato gótico tropical e ponendo al centro dei loro film la figura del “vampiro”, che veniva associata allo sfruttamento economico.

In particolare, in Pura sangre (1982) di Ospina, il protagonista (proprietario di piantagioni di canna da zucchero) era connotato come un vampiro (una banda di criminali compiva omicidi per procurare il sangue necessario alle trasfusioni che lo tenevano in vita mentre le inquadrature in cui il personaggio appariva in ombra rimandavano a Nosferatu).

Ecco, il “fantasma” di Un mondo fragile – spogliato di diritti e “invisibile” – è il contraltare del “vampiro” di Pura sangre: è attraverso queste creature fantastiche che vengono lette le particolarità dell’economia della canna da zucchero che domina la Valle del Cauca. Le inquadrature “gotiche” notturne e le finestre “metafisiche” in cui le piantagioni fagocitano lo spazio intorno alla casa confermano la discendenza di Un mondo fragile dal cinema del gruppo di Cali. Visto in questa chiave il film di Acevedo – già co-sceneggiatore di Los hongos, 2014, di Oscar Ruíz Navia che omaggiava con una lunga citazione un altro horror del gruppo di Cali, Carne de tu carne, 1983, di Mayolo – assume in pieno il suo valore.

Un mondo fragile
Colombia, 2015, 97'
Titolo originale:
La tierra y la sombra
Regia:
César Augusto Acevedo
Sceneggiatura:
César Augusto Acevedo
Montaggio:
Miguel Schverdfinger
Cast:
José Felipe Cárdenas, Edison Raigosa, Marleyda Soto, Hilda Ruiz, Haimer Leal
Produzione:
Burning Blue, Ciné-Sud Promotion, Preta Portê Filmes, Topkapi Films
Distribuzione:
Satine Film

Alfonso, un vecchio contadino,  torna dalla sua famiglia dopo diciassette anni, per accudire il figlio Gerardo, gravemente malato. Al suo ritorno, ritrova la donna che era un tempo la sua sposa, la giovane nuora e il nipote che non ha mai conosciuto, ma il paesaggio che lo aspetta sembra uno scenario apocalittico.

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