Jaco Van Dormael

In missione. E non per conto di Dio

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Tralasciamo i referenti ipertestuali, e i riferimenti (il miglior Onnipotente di celluloide continua ad essere il George Burns di una commedia anni Settanta di Carl Reiner). In questi ultimi giorni di tensione dovuta a pretese motivazioni religiose, bisogna accogliere con sferzanti ghignate un prodotto come Dio esiste e vive a Bruxelles. E vederlo per quello che è: una celia – d'autore, stando alla firma – concepita per uno scopo che gli odierni tempi sembrano non voler più accettare, ossia produrre comicità da uno spunto teologico.

Benché suoni curioso che l'uscita del film di Jaco Van Dormael coincida col vuoto di terrore che gli ultimi attentati hanno provocato anche in una capitale come Bruxelles (“il posto più brutto del mondo”, a dire del regista), l'idea che il Padreterno sia presentato come un autentico pezzo di merda in vestaglia e bermuda, dedito a tracannare birra, a fumare come un turco e a inventare le leggi della fisica attraverso un mistico computer, per il solo gusto di capovolgerle e procurare scalogne ai comuni mortali, arriva – e deve arrivare – come un genuino sberleffo.

In questo senso, la prima parte di Dio esiste e vive a Bruxelles varrebbe da sola le due ore di proiezione: dall'alto di una città metafisica, che riecheggia Wenders e lo Scorsese di Hugo Cabret, lo spettatore meno osservante ride di gusto all'idea che Dio si beffi di chi, assettatosi nella vasca da bagno, si debba rialzare allo squillo di un telefono, o di chi, durante la colazione, veda la fetta di toast cadere a terra dalla parte della marmellata. E la mega-biblioteca vuota e semibuia – lo studio di Dio, invero più accostabile a un ufficio impiegatizio – conduce l'opera nella sfera delle pellicole surrealiste, memore persino dell'Orwell rivisitato da Gilliam.

È quando il Padreterno entra in campo col corpo e le sembianze del cinquantenne Benoît Poelvoorde, in tutti i segmenti in cui è al centro, che Dio esiste e vive a Bruxelles si rivela esilarante, giacché l'idea che ognuno ha imparato a costruirsi della divinità letteralmente fa a cazzotti con un cinico misantropo, impietoso connubio di Homer Simpson e Mr. Bean. E giustizia divina, ma non a Lui dovuta, lo obbliga a un grottesco contrappasso, finendo per cadere vittima delle medesime sfighe da lui concepite, malmenato dai teppisti di strada e, colmo dei colmi, preso naturalmente per blasfemo pazzo nel finale.

Peccato che la seconda parte non sia qualitativamente all'altezza della prima: Van Dormael abbandona presto il prototipo, il suo ruolo in famiglia (con la moglie altrettanto onnipotente, ridotta a muta figura) e l'antitetico rapporto con l'immaginaria figlioletta Ea, per condurci, attraverso un lungo tunnel che sfocia nell'oblò di una lavatrice in una tintoria, nel vivo di una missione divina. Sicché, da aneddoto simpaticamente provocatorio, il film opta per il terreno della fiaba, tanto che la fuga della fanciulla, che sfugge al padre lungo un interminabile tunnel di acciaio, riporta alla mente Pollicino e il riadattamento che, della struttura favolista, un certo Kubrick in un celebre epilogo realizzò in un labirinto coperto di neve.

Favola puntellata di surreali bozzetti, dove l'assurdo del Caso, e delle Sacre Scritture per come le si è sempre assimilate, si sposa col proprio naturale ribaltamento figurativo, e il surreale della coincidenza consente il riavvicinamento d'incontri e sorti entro una bislacca, eppur equa, soluzione degli eventi. Qualcosa che già il recente Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza di Andersson aveva ostentato con una narrazione in sottrazione, che in Van Dormael riacquista gioiosa linfa esistenziale, carica di leggerezza, ottimismo e spasmodico amore per la vita.

Ne fornisce un esempio l'incontro dopo anni con una donna, l'interesse per la quale non fu mai ripagato, di uno dei prescelti neo-apostoli, che, consapevole della propria data di scadenza, si dichiara a lei durante il doppiaggio di un pornofilm. Ancora, il destino incrociato di due giovani sfortunati, con un proiettile vagante sparato dal primo a fungere da galeotto e a colpire la protesi dell'avambraccio della seconda, o quello di una sfiorita Deneuve che lascia il marito per trescare con uno scimmione (chi si ricorda di Max, Mon Amour?).

L'aggiornamento del Nuovo Testamento – come recita il titolo originale – per mano di una bambina in mezzo alla gente comune, la sua ricerca al fianco di un clochard di sei apostoli in più come in una squadra di baseball (così spiega il celebre fratello di Ea, contemplato in una scultura religiosa), è riconducibile all'area che il cinema nordico da sempre dedica al tema con sensibilità, anche se il procedere iconico per simboli e rimandi rischia, alcune volte, la maniera virtuosistica. Si sorride però nell'assistere, con gli occhi di Yolande Moreau, alla reinvenzione del Cenacolo come in un Ritorno al futuro, impreziosito dai neo-discepoli che Ea riesce a contattare infondendo a ognuno il messaggio da tramandare ai posteri.

A pensarci, la piccola porta a compimento non tanto o non soltanto una missione celeste, ma anche quel compito di giustizia della sorte che i precedenti personaggi (maschili) della filmografia di Van Dormael non riuscivano a coronare, impossibilitati dall'esser nati sotto una cattiva stella. E poco importa che siano due figure femminili gli (anti)eroi d'inizio millennio: una bambina e una madre.

Se è vero che non sempre si può giudicare un'opera con la testa ma con il cuore, è proprio il cuore che permette a Ea di infondere il necessario entusiasmo ai suoi eletti: ogni volta il battito è sostituito da una colonna musicale che è leitmotiv di un carattere e un'esistenza, si tratti dello Schubert de La morte e la fanciulla o del Trenet di La Mer, a propria volta colonne sonore in molte occasioni. L'Onnipotente in persona, invece, è condannato a ricusare affermazioni a lui attribuite, tipo l'invito ad amare il prossimo, che – sostiene – non s'è mai sognato di suggerire. Ad essere trattato come un povero scemo incapace di dimostrare la propria aura e di far uso dei propri poteri (compreso camminare sull'acqua), ignominioso oggetto della furia di un prete da Lui umiliato – e che si vendica trattandolo da feccia, mentre un beffardo sogghigno si stempera sul volto del Crocifisso – e addirittura segregato in una sperduta miniera in Uzbekistan.

Anche se Dio esiste e vive a Bruxelles è da reputarsi come una commedia concepita allo scopo di far ridere, con tanto di finale in crescendo e carosello a sorpresa, non si può far a meno di pensare a una cosa: per sbellicante che sia l'idea di sapere una volta tanto il tempo che resta da trascorrere, tramite un sms pervenuto dal nulla, e prenderne stoicamente atto, è solo questa la chiave con cui scuotere lo spettatore e indurlo, tra una risata e l'altra, a far i conti con le proprie imminenti paure. 

Dio esiste e vive a Bruxelles
Belgio, Lussemburgo, Francia, 2015, 113'
Titolo originale:
Le tout nouveau testament
Regia:
Jaco Van Dormael
Sceneggiatura:
Thomas Gunzig, Jaco Van Dormael
Montaggio:
Hervé de Luze
Musica:
An Pierlé
Cast:
Pili Groyne, Benoît Poelvoorde, Catherine Deneuve, Francois Damiens, Yolande Moreau, Laura Verlinden, Serge Larivière, Didier De Neck, Marco Lorenzini, Romain Gelin, Anna Tenta, Johan Heldenbergh, David Murgia, Gaspard Pauwels, Bilal Aya, Johan Leysen, Dominique Abel, Lola Pauwels, Sandrine Laroche, Louis Durant, Jean Luc Piraux, Anne-Pascale Clairembourg, Alice van Dormael, Caroline Lambert, Jérôme Varanfrain, Aïssatou Diop, Armand Van Dormael, Viviane de Muynck, Pascal Duquenne, Hervé Sogne
Produzione:
Terra Incognita Films, Après le Déluge, Caviar Films
Distribuzione:
I Wonder Pictures

Sapevate che Dio vive a Bruxelles con sua figlia?

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