Terrence Malick

Knight of Cups di Terence Malick

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La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini. (Vangelo di Filippo)

Da diversi anni a questa parte, il cinema di Terrence Malick è qualcosa di particolarmente difficile con cui relazionarsi. Da un lato, ogni qualvolta un nuovo lavoro si affaccia sulla scena, i detrattori si armano, con perentoria vivacità, di tutto l’arsenale critico a loro disposizione, prodigandosi in lunghe osservazioni circa la vacuità ermeneutica e la superficialità estetizzante dell’opera; d’altro, una sempre minor schiera di sostenitori tenta in tutti i modi di valorizzare i vari film, ribaltando in positivo quelli che, da parte di molti, vengono considerati come i maggior difetti. La conclusione è quella di una palude critica dove ci si può imbattere, con la stessa facilità, in esaltazioni verso il magnifico stupore che Malick mostra di fronte alla Natura (rigorosamente maiuscola) oppure, viceversa, nella sprezzante considerazione di star guardando l’ennesimo documentario firmato dalla National Geographic.

In verità, a partire dal lungo silenzio iniziato da I giorni del cielo e interrotto con La sottile linea rossa, è innegabile che il regista statunitense abbia inaugurato un’estetica e una poetica molto personali, dinnanzi alle quali l’unica arma che la critica possiede, lungi dal ridurre la valutazione a meri gusti personali, è quella di provare a pensare e interpretare il materiale cinematografico.

In linea generale, ponendosi oltre la mortifera logica del fan, sono tre le direttrici che animano l’ermeneutica malickiana: la prima, influenzata dal pensiero di Heidegger e dal trascendentalismo di Emerson, si concentra sullo spaesamento dell’essere umano quale occasione di risveglio e stupore nei confronti del mondo; la seconda utilizza il polemos eracliteo come chiave interpretativa nei raffronti delle molteplici e plurali dicotomie presenti in film come The Tree of life e To the Wonder; infine, come suggerito da Alessandro Baratti, gli ultimi lavori di Malick mettono in scena il percorso gnostico della salvezza che va dal buio della creazione alla luce della redenzione.  

È quest’ultima la via interpretativa più efficace per entrare nell’universo poetico del cineasta texano. Dopo The Tree of Life e To The Wonder, film di impronta gnostica che, tuttavia, si prestavano a molteplici interpretazioni, con Knight of Cups le intenzioni di Malick sono tutt’altro che oscure. Il movimento gnostico, che ebbe la sua massima diffusione nei primi secoli del cristianesimo, si articola attorno a un’opposizione inconciliabile tra l’oscurità e le tenebre del mondo materiale e il pneuma, la luminosa scintilla divina presente nell’interiorità di ogni individuo.

In questo senso, oltre a ruotare attorno ad un’idea dualistica e trascendente della salvezza, il movimento attribuisce un’importanza fondamentale al momento del risveglio. Gettato nella notte del mondo e accecato dalla polvere della materia, l’uomo vive in un’inerzia letargica dominata dalla dissolutezza, dall’abbandono e dalle futili gioie terrene; in questo stato di ebrezza continua, l’essere umano dimentica che, racchiuso nella sua interiorità, è presente una scintilla di luce, una porzione della sostanza divina caduta nel mondo che, se ri-conosciuta, è in grado di ricongiungerlo al regno nativo della Luce. In questo, esattamente, coincide il risveglio: solo dopo aver preso coscienza del pneuma che alberga nella propria interiorità l’uomo sarà in grado di rifiutare il vino dell’ignoranza offertogli dal mondo.

Se questa visione, come detto, è già ravvisabile a partire da The Tree of Life (e, forse, pure nei lavori precedenti), in Knight of Cups lo spettatore è assorbito fin dalle prime sequenze nell’universo gnostico. Il film inizia con una voce over che recita Il pellegrinaggio del cristiano (1678), allegoria religiosa di John Bunyan seguita, dopo la prima scena in cui vediamo Rick (Christian Bale) avventurarsi per la prima volta in una terra altra, straniera, la riproposizione de l’Inno della Perla, fondamentale testo risalente al II secolo d.C. compreso negli atti apocrifi dell’apostolo Tommaso. Il testo racconta l’avvento di un salvatore, il Figlio del Re, che viene mandato dal Padre sulla terra per recuperare la Perla perduta (ossia la scintilla divina nascosta in ogni essere) il quale, tuttavia, finisce con l’essere corrotto dai piaceri del mondo, dimenticando così lo scopo della sua missione.

Tutto ciò che viene raccontato nel film, dunque, è l’autentica riproposizione simbolica e per immagini di ciò che è poetato nell’Inno: l’avvento iniziale di Rick nel mondo e nell’orgiastica festa iniziale, per esempio, è il momento in cui il Cavaliere, colui che ha il compito di risvegliare la Perla, si disseta dalla coppa dell’oblio, scordando se stesso («Dimenticai di essere figlio di re e servii il loro re, e dimenticai la perla per cui i miei genitori mi avevano mandato e per il peso del loro nutrimento caddi in un sonno profondo»).

Inizia così un lungo percorso in cui, capitolo dopo capitolo, la cattura, l’abbandono, l’intorpidimento («Il mondo è una palude, devi volarci sopra») in cui giace Rick cominciano a lasciare posto all’anámnèsis, la ricognizione della vera identità dell’anima, ossia la ri-cognizione della sua origine celeste che avverrà, simbolicamente, nell’ultimo capitolo intitolato Libertà («Trova la tua strada, dall’oscurità alla luce»; «Trova la luce che conosci, come un bambino»).

In questo lungo e suggestivo percorso Malick si muove con il dinamismo, la frammentarietà e la polifonia che gli sono proprie: l’unica linearità offerta è quella della redenzione mentre tanto la narrazione quanto le immagini sono soggette ad una costante decostruzione. L’azione, la vita, la temporalità tutto è improntato all’insegna della migrazione audio-visiva e lo spettatore non può che lasciarsi fagocitare dalla questa incommensurabile proliferazione.

Soprattutto se considerato accanto a Voyage of Time, in cui lo gnosticismo malickiano abbraccia un punto di vista cosmico e universale, Knight of Cups si concentra sulle vicende umane, rielaborando, a mo’ di sintesi, il materiale fornito da The Tree of Life e To the Wonder. In questo, i lavori di Malick non solo brillano per originalità e coerenza ma individuano un unicum assoluto all’interno del panorama cinematografico odierno. Alla stregua di un poeta, egli racconta la propria idea di mondo con l’ausilio dell’immagine, operazione creativa alla quale, indipendentemente delle personali posizioni critiche, non si può che dare atto.

Knight of Cups
USA, 2016, 118 min
Titolo originale:
Knight of Cups
Regia:
Terrence Malick
Sceneggiatura:
Terrence Malick
Fotografia:
Emmanuel Lubezki
Montaggio:
Mark Yoshikawa
Cast:
Antonio Banderas, Cate Blanchett, Christian Bale, Freida Pinto, Imogen Poots, Isabel Lucas, Joe Manganiello, Joel Kinnaman, Natalie Portman, Ryan O'Neal, Shea Whigham, Teresa Palmer, Wes Bentley
Produzione:
Dogwood Films, Waypoint Entertainment
Distribuzione:
Adler Entertainment

Rick è uno scrittore alla ricerca dell'amore e di se stesso, tra le luci di Los Angeles e Las Vegas. La sua missione, volta a rompere l'incantesimo della sua disillusione, lo porta ad affrontare una serie di avventure con sei donne seducenti: Della la ribelle; la sua ex moglie; Helen la modella; una donna a cui aveva fatto male in passato, Elizabeth; Karen la spogliarellista vivace e spensierata; e l'innocente Isabel, che lo aiuterà a trovare un modo per andare avanti. Nonostante il torpore in cui Rick sembra immerso, riusciranno la bellezza, l'umanità e i ritmi della vita intorno a lui a svegliarlo?

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