Léa Fehner

Les Ogres

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Che l’interazione costante e continua tra il teatro e il cinema funzioni sullo schermo, lo ha confermato solo un paio di anni fa lo straordinario successo di Birdman. E quella di Les Ogres si prospetta, in tutto e per tutto, una contaminazione altrettanto efficace. Cast e produzione non sono ai livelli del film di Iñárritu, eppure, la filosofia che pervade il secondo lungometraggio (dopo Qu’un seul tienne et les autres suivront o Silent Voice) della francese Léa Fehner, vincitore, per il momento del premio di pubblico a Pesaro e Rotterdam, è certamente la stessa.

Protagonista del film è il teatro Devai, compagnia di guitti eccentrici, assurdi, esagerati e rumorosi che, spostandosi in carovana – quasi come fossero un circo, ma con intenzioni culturali ben più nobili, che quindi (e viene sottolineato più volte) li distinguono nettamente dai circensi, quasi disprezzati –, porta di città in città, di scena in scena, uno spettacolo che ha l’ambizione di unire Checov al cabaret. Sono orchi (gli “ogres” del titolo, appunto), questi attori sopra le righe, dalla vita sconclusionata e priva di privacy. Eppure sono anche, e prima di tutto, uomini.

Affianco a scene di assoluta e totale arroganza e sregolatezza, volte a mostrare gli eccessi di quel mondo che la Fehner conosce così da vicino, essendo cresciuta nel teatro itinerante del padre (che, affianco anche alla madre e alla sorella della regista, è parte del cast), la macchina da presa si sofferma spesso anche sulla delicatezza di un gesto e di uno sguardo. Così lo spettatore si trova invischiato in comiche risse da bar e gare clandestine sulle strade, in schiamazzi di clacson e insulti gridati a pieni polmoni, nonché in una promiscuità e volgarità quasi eccessive (come l’annuncio al megafono del tradimento della propria compagna); allo stesso tempo s’imbatte in disarmanti istanti ad alto tasso emotivo e in inquadrature dal sentore dichiaratamente poetico (come il primo piano sulle mani di un bambino, o sulla piuma che, scendendo dal cielo, anticipa la caduta di una della attrici).

E la perdita di un membro dello spettacolo (per grande o piccolo che sia il suo ruolo), in un tanto imprevisto, quanto repentino incidente, può sconvolgere tutto. Può portare alla luce, in un concatenarsi di eventi, ogni dolore e segreto di quella grande famiglia che è la compagnia teatrale. D’improvviso, quindi, ci si trova a combattere con la depressione per la perdita di un figlio (che la leucemia si è portata via anzitempo) e con le responsabilità di un nuovo bambino in arrivo, o ancora con la paura d’invecchiare e sentirsi “scartati”, e con la difficile relazione (costretta) con l’amante del proprio marito. Paure, idiosincrasie, difficoltà, fragilità, che rendono i guitti, i giullari, coloro che per natura e per mestiere sono tenuti a intrattenere e far ridere, estremamente umani.

E ciascun sentimento, quasi seguendo una logica necessaria alla professione, si palesa proprio a partire dal teatro: i confini tra realtà e recitazione sfumano, si perdono l’uno nell’altro, in un continuo salto dentro e fuori dalle scene. Non solo non c’è più quarta parete – e si recita dunque tra il pubblico – ma addirittura non c’è più una netta distinzione tra se stessi e il personaggio, tra la propria vita e l’opera, così che anche una lite fittizia nel corso di una prova può diventare espressione di un dolore reale, in un flusso ininterrotto tra “la parte” e l’odio realmente sentito.

Basta un solo tassello spostato, e quella del teatro Davai diventa una parabola discendente di incidenti e fratture interne. Una spirale che porta quasi alla rotta definitiva, allo scioglimento della compagnia. Eppure, ancora una volta, la pace e l’equilibrio passano attraverso le scene. Il bisogno – prima economico, ma poi anche culturale – di portare avanti lo spettacolo è ciò che spinge a restare uniti. Sempre e nonostante tutto. A essere una famiglia, al punto tale che se un’infermiera consente l’ingresso in camera d’ospedale solamente al padre del piccolo neoarrivato tra le fila del teatro itinerante (bambino che si annuncia, tra l’altro, ancora nel bel mezzo di uno spettacolo), gli uomini, tutti, necessariamente, si sentono tenuti a ricoprire quel ruolo e a farsi avanti.

È un mondo sconclusionato, eppure perfettamente funzionante, nella sua solidarietà, quello che ci viene mostrato. Un mondo in cui ciascuno, come in un castello di carte, è “pilastro” fondamentale, e non può farsi da parte senza rischiare di far crollare tutto ciò che è stato costruito. Un equilibrio che si rispecchia perfettamente nella coralità della struttura del film stesso, in cui nessuno, mai, prevarica su nessuno, in cui tutti sono comparse e protagonisti, con una straordinaria indagine e caratterizzazione personale.

Les Ogres
Francia, 2015, 144 min
Titolo originale:
Les Ogres
Regia:
Léa Fehner
Sceneggiatura:
Brigitte Sy, Catherine Paillé, Léa Fehner
Fotografia:
Julien Poupard
Cast:
Adèle Haenel, François Fehner, Inés Fehner, Lola Dueñas, Marc Barbé
Produzione:
Bus Films, France 3 Cinéma, France Télévision
Distribuzione:
Cineclub Internazionale

Quelli della compagnia Davai Théâtre - una turbolenta tribù di artisti nella quale il lavoro, i legami familiari, l'amore e l'amicizia si mescolano con veemenza, scavalcando i confini tra la finzione del palcoscenico e la vita reale - vanno di città in città, con una tenda in spalla e il loro spettacolo a tracolla. mettono in scena Checov. Ma l'imminente arrivo di un bambino e il ritorno di un ex amante fanno rivivere le ferite che si pensava fossero ormai dimenticate... 

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