Martin Scorsese

Lo smalto della penna

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Mi chiedo quale delle due domande sia più urgente, oggi: chi siamo? come siamo diventati ciò che siamo? Scorsese si è già interrogato su entrambe le questioni, ai tempi di Casinò. E aveva dato risposte up to date, nel bel mezzo di due lustri forse ancor più tragici di quelli che li hanno preceduti. Sulle medesime questioni si interroga ancora, adesso, al tempo della crisi (per usare un’etichetta sepolcrale cara ai media): cioè, dove affondano le radici di questa mostruosa contemporaneità? Le risposte sono praticamente identiche, tanto sempre di crisi di tratta, perché ogni epoca ha la sua.

C’è qualcosa di nuovo? No. Scorsese è sempre qui a godere della propria elefantiasi, offrendo ancora una parabola dell’uomo che è lo specchio della realtà che lo coccola e che peraltro lui stesso contribuisce a creare. Va bene. Però stavolta più che l’urgenza morale sento la predica moralistica, contro tutto e tutti, dal dio denaro all’ambizione sfrenata. Come se un filmmaker che nei suoi momenti migliori (tanti) ha inquadrato frontalmente la deriva inevitabile della società ora si limitasse a ricordarla e a ricordarne gli effetti negativi con monito da dito alzato e pulpito chiesastico. E noi ascoltiamo da bravi fedeli, pronti come sempre a lasciarci travolgere dall’eloquio travolgente (e francamente interminabile). Quindi vai di piani sequenza, di macrodettagli, di juke-box.

Poi poco importa se in tre ore ci sono ripetizioni inutili, semplificazioni antipatiche, perfino errori grossolani di montaggio: perdinci, è pur sempre Martin Scorsese, e in centottanta minuti di forza cinematografica sovrumana tutto è perdonato. Finanche una messa in scena del sesso plastica e rifatta, che neanche nel Phillip Noyce di Sliver (provate a vedere la scena dell’orgia gay, con tutti gli attori posizionati perfettamente di terga o di tre quarti). Dov’è il vero sporco, il vero sudore drogato? D’accordo parlare degli anni ’90, ma non significa che si debba rappresentare le scopate e i nudi alla stregua dell’Uli Edel di Body of Evidence.

Mi sembra che in The Wolf of Wall Street vinca lo smalto sul cuore. Anche perché quest’ultimo ha veramente poco da dire, ammettiamolo. Almeno non più di quanto riesca a dire un qualunque Margin Call (che dura per giunta la metà). Questo Scorsese, così vecchio e così fintamente arzillo, sceglie sempre la strada più facile, la metafora più scoperta. E non inventa più niente (diversamente da un altro baby boomer come Coppola), adeguandosi non tanto a questi giorni grigi – il che sarebbe peggio, senza dubbio – bensì a se stesso.

Il problema dello Scorsese odierno (dello Scorsese degli ultimi vent’anni) non è la coltivazione della propria poetica, cosa rispettabilissima, ma suonarla e cantarla a priori, questa benedetta poetica, insistendo su una forma che risulta tanto personale quanto ormai inutile a perseguire alcunché. Perché non sono più sufficienti dei monologhi o qualche carrello magistrale in ufficio a raccontare un mondo: in Fuori orario, o Il colore dei soldi, o Cape Fear – Il promontorio della paura, giusto per fare degli esempi poco scontati, la tecnica virtuosistica era capace da sola di descrivere personaggi e immaginari; in The Wolf of Wall Street, fra tutto questo apparente bendidio trascinante e irresistibile e divertente e agghiacciante e ciò che si vuole, lo stile rispetterà anche l’eccitazione enfatica e a pupille dilatate del protagonista, ma se è lui per primo a mancare d’interesse, il film ci va dietro.

In fin dei conti, si tratta di un esaltato che dalla padella sale alle stelle e poi ridiscende nella padella, per terminare guarda caso nella brace e, infine, a vestire i panni del termine di paragone. A un corso di formazione per aspiranti venditori, Jordan Belfort, rinato dalle sue stesse ceneri, esordisce col suo pezzo forte della penna, davanti all’inesperienza di una platea di nuovi squali, evidentemente carenti di estro e di ingegno. Cosa ci vuol lasciare Scorsese? Il rimpianto per una genialità che, nonostante tutto, merita attenzione? Oppure guarda sconfortato alle generazioni di mercanti più giovani incapaci di fantasia? O ancora divide due tipologie di uomo, quello che s’è fatto e distrutto da sé, ossessionato dal profitto ma in qualche modo (quale?) rispettabile nello sfruttamento di un sistema capitalistico, e il nuovo (una realtà nuova, un mondo nuovo) che ascolta senza sapere, e forse poi impara senza capire?

Ambiguità a parte, non posso evitare di sentirmi un po’ truffato, come se qualcuno mi avesse convinto della bellezza e dell’utilità di una penna splendida splendente che però non scrive perché senza inchiostro.

 

 

The Wolf of Wall Street
Usa, 2013, 180'
Regia:
Martin Scorsese
Sceneggiatura:
Terence Winter, Jordan Belfort
Fotografia:
Rodrigo Prieto
Montaggio:
Thelma Schoonmaker
Cast:
Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin, Jean Dujardin
Produzione:
Red Granite Pictures, Sikelia Productions, Appian Way, EMJAG Productions
Distribuzione:
01 Distribution

La vera storia di Jordan Belfort dalle sue origini fino all'ascesa nel mondo di Wall Street e alla sua condanna a vent'anni di reclusione per il rifiuto di collaborare nell'indagine che portò a galla la corruzione dominante nel mondo finanziario americano negli anni Novanta.

 

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