Bong Joon Ho

Memorie di un assassino

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Memorie di un assassino è un film arrivato lungo e fuori tempo, distribuito in sala appena prima del lockdown di primavera dopo ben diciassette anni dalla sua realizzazione. Eppure con un tempismo significativo, soprattutto a mettere in prospettiva - anche fuori delle visioni festivaliere - il cinema di Bong. In special modo dopo Parasite (il cui successo è stato senz’altro determinante nel ripescaggio distributivo della sua opera seconda).  

La vicenda è classica. Un serial killer, un’inchiesta, cadaveri di donne assassinate sotto la pioggia battente che si ritrovano seviziati e denudati nelle campagne di un provincia ignota. Un manipolo di detective locali, il commissario grossolano, l’aiutante picchiatore, il capo della polizia che vuole chiudere in fretta il caso e un poliziotto silenzioso che con il suo complesso di superiorità e un’ombra di infallibilità arriva sul campo dalla capitale. In mezzo i capri espiatori, le indagini, i dubbi, i presunti colpevoli, le morti che si susseguono. L’affresco sociale resta sul fondo del genere, sostenendolo come si conviene, ma la riflessione sugli abusi di potere, la violenza e le storture di un sistema che fa acqua da tutte le parti senza sembrare minimamente interessato a tappare le proprie falle sono anche da leggersi riferiti al momento storico in cui la vicenda è ambientata: quel 1986 che introduce le fasi finali del regime autoritario che dominò la politica sudcoreana negli anni Ottanta. C’è già tanto del cinema di Bong in Memorie di un assassino. C’è la narrazione di un sistema al collasso, il racconto di un cortocircuito sociale, la messa in scena di uno spazio in continua negoziazione attraverso linee e livelli che si muovono senza sosta, c’è l’orchestrazione corale, il genere all’ennesima potenza, ci sono i registri che vanno dal dramma alla farsa senza mai far dubitare della propria pertinenza al momento. E poi c’è il discorso scopico messo in forma dallo sguardo di un autore che già si presentava al mondo con le idee molto chiare.

Su e giù, giù e su. Si muovono già cosi i mondi che racconta Bong in Memorie di un assassino. Non sono le classi sociali di Parasite, qui sono gli strati della legalità, o della legittimità, a costruirli mettendo in campo dinamiche quasi totalmente al maschile: strati che vanno dai sotterranei del commissariato al livello zero del terreno di indagine passando per tante scale capaci di far scendere anche più in basso (in senso fisico e etico). I personaggi salgono e scendono, ogni tanto qualcuno rotola giù facendo franare ogni credibilità del castello di carte faticosamente messo in piedi, oppure sale e riscende freneticamente per portare una velina senza mai portare una soluzione (una delle poche azioni affidate alle donne). I poliziotti molto spesso si accucciano come a cercare un punto di vista diverso guardando attraverso un tunnel, una galleria o semplicemente un buco per trovare una risposta (vera o fittizia che sia). Invece niente, non solo non si trovano una soluzione, un equilibrio e una riposta ma nemmeno un posto in cui stare in questo continuo movimento che finisce per far perdere anche il fuoco su se stessi. Non serve nemmeno tornare al livello zero. Quello di un campo invaso dalla luce (al contrario degli scantinati e dei tuguri dove si muovono i poliziotti), un livello che sembra essere pura superficie e che per questo - in almeno un paio di magnifiche sequenze - viene sezionato da sinistra a destra e non dall’alto verso il basso. Come se dei limiti diversi, delle dinamiche diverse, potessero contribuire a far trovare una soluzione. Ma il campo è molto di più di una superficie. Come un elastico tra le dita che si può intrecciare infinite volte, stratificandosi, complicandosi, moltiplicandosi, nasconde il dramma dentro le sue stesse viscere, custodendolo al riparo dagli sguardi. Per questo, trascorsi gli anni, lì si ritorna. E lì ritroviamo il commissario. Seduto a terra, sull’argine del canale da cui tutto è partito, ormai passato ad altra vita, il commissario continua a cercare dentro le viscere di quel terreno senza trovare un oggetto da guardare. Si ritrova a quel punto lui a essere guardato da una bambina che passando di lì si ferma ad osservarlo dall’alto e senza sapere, rimette in discussione tutto. Ancora una volta. Non lasciando altra possibilità a quell’uomo senza risposte che voltarsi e interpellare lo spettatore.

Siamo dalle parti delle cose che interessano a Bong, allora come oggi, siamo dalle parti di una complessità di riflessione e di messa in scena che dimostra la sua coerenza e insieme annuncia la sua possibilità di sublimazione. Ecco perché si può parlare di sguardo autoriale sicuri di non abusare del termine. Una volta tanto. 

Memorie di un assassino
Corea del Sud, 2003 ,
Regia:
Bong Joon Ho
Sceneggiatura:
Bong Joon Ho, Shim Sung-bo
Fotografia:
Kim Hyung-koo
Montaggio:
Kim Sun-Min
Musica:
Tarô Iwashiro
Cast:
Byun Hee-Bong, Jeon Mi-seon, Kang-ho Song, Kim Sang-Kyung, Ko Seo-hie, Parco No-shik, Park Hae-Il, Roeha Kim, Seo Young-Hwa, Song Jae-ho
Produzione:
CJ Entertainment, Muhan Investment, Sidus
Distribuzione:
Academy Two

In un piccolo villaggio, nel 1986, viene trovata una giovane donna brutalmente assassinata. Due mesi dopo, un crimine molto simile, attira l’attenzione dell’opinione pubblica. Lo spettro di un assassino seriale fa sprofondare l’intera regione nel terrore. Due poliziotti locali, tanto brutali quanto impreparati, indagano con mezzi poco ortodossi sugli omicidi. Si unirà a loro un terzo detective, in arrivo direttamente da Seul. Penserà di poter risolvere il caso ma, fra errori e false piste, verrà trascinato negli abissi di un’indagine senza apparente risoluzione.

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