Sabrina Varani

Pagine nascoste

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Il ricordo di un fatto o di un evento si presentano talvolta nella forma dell’immagine: quel volto, quell’ambiente, quel paesaggio. Così questo lampo, sorta di fotografia istantanea della mente, diviene una vera e propria memoria, non solo quando si realizza in un’intera catena di ricordi, ma nel momento in cui la si mette in parola. In questo senso la memoria è quel processo scritto o parlato in grado di raccontare almeno una storia. La messa in atto di questa procedura di rammemorazione, tuttavia, ha sempre un punto cieco, buio, qualcosa che non viene ricordato. È possibile ricordare qualcosa, solo a patto di dimenticarne molte altre, secondo un principio di economia della coscienza. Spesso una storia ne sovrascrive un’altra e fa guadagnare più realtà.

Per questo in Pagine nascoste la protagonista Francesca Melandri, autrice del libro appena edito Sangue giusto, cerca di ricostruire la storia del padre comincia a farlo da una serie di foto e immagini, per poi risalire all’intera storia (anche a quella di cui non è stato diretto protagonista e responsabile). Il film è dunque girato in contemporanea alla scrittura del libro – è il suo backstage, pure se con plot completamente diversi – in un tempo lungo, necessario almeno alla ricerca personale, biografica e storica di quel particolare aspetto della memoria, che consiste nella rimozione. Si rimuove non semplicemente perché si dimentica, ma perché il sentimento (di per sé traumatico) di vergogna trova nella cancellazione la sua difesa. Così per Franco Melandri, padre di Francesca, fascista, rimasto poi (forse) deluso dalla guerra in Russia, era difficile dire cosa fosse stato. Ma anche per la figlia, che rintraccia il rimosso e se ne libera solo immettendo una storia familiare privata in una vicenda più grande quella del colonialismo e del razzismo, cui suo padre aveva tenacemente aderito, fino agli ultimi giorni della Rsi, senza avervi partecipato direttamente.

Più complicato è trovare le ragioni, invece, della rimozione collettiva di una storia. Perché – in questa domanda sta il contenuto storico-politico del film – l’Italia ha dimenticato il suo passato coloniale? Si potrebbe sostenere perché non se ne è fatta a sufficienza una storia, oppure perché si è prediletta la visione secondo la quale gli italiani che colonizzavano Etiopia e Libia erano comunque “brava gente”, e ancora perché quel sentimento coloniale (cioè razzista) è tuttora vivo, ma in termini appena diversi (e forse più gravi perché ciechi rispetto all’esperienza compiuta). Tutte queste ipotesi sono valide nelle ricerche che finalmente negli ultimi decenni vengono fatte a livello scientifico, mediatico, documentario – si veda quel gioiellino di opera prima di Ciriaci-Lipztin, If Only I Were That Warrior, dedicato alla costruzione del monumento a Graziani ad Affile – e anche letterario –Timira di Wu Ming 2 e Marincola, Regina di fiori e di perle di Ghermandi, L’abbandono di Dell’Oro  e gli scritti di Iglaba Scego, che compare anche nel film come accompagnatrice nell’escursione al lugubre Parco Graziani.

Le qualità del film, montato in modo interessante per incrocio alternato fra le due linee della memoria familiare e della rivisitazione dell’Etiopia di ieri e di oggi, ma fin troppo didascalico nella sua trama, sono essenzialmente due: da un lato mostrare l’anteriorità del colonialismo rispetto al razzismo squadrista del 1938 e dall’altro indicare la permanenza del fascismo quale “mentalità” che giustifica la rimozione di quel determinato istinto razzista e coloniale. Attraverso gli scritti e le foto dell’antropologo Lidio Cipriani (uno dei dieci firmatari del Manifesto della razza poi radiato dagli stessi fascisti per commercio di reperti), si spiega come la naturalizzazione della razza su basi biologiche, ergometriche e fisiche fosse necessaria alla strutturazione di un certo rapporto di dominio nei territori etiopi, ma soprattutto si individua la matrice primaria della violenza coloniale nella violenza sessuale degli stupri e dei concubinati.

Perché questi aspetti dimenticati, obliterati, rimossi persistono nel presente italiano, fatto di formazioni neo-fasciste e politiche migratorie feroci? La risposta è interessante proprio per il dispositivo di svelamento (allo stesso tempo biografico, genealogico e storico) che il documentario mette in atto. Parlando di Franco Melandri, un’intervistata sostiene che egli fu «educatamente fascista», frase che va intesa non tanto nel senso che egli non avesse alternative ad essere ciò che era in quello specifico periodo storico, ma che punta a metterne in luce la mitezza, la bontà, l’educazione appunto.

Il fascismo, dunque, non fu solo un evento storico e neanche un semplice movimento politico, ma una vera e propria ideologia che legando un’attitudine intima a un certo discorso pubblico ne spiega non solo storicamente la diffusione, ma anche le ragioni della sua spettrale ripetibilità. 

Pagine nascoste
Italia, 2017,
Titolo originale:
Pagine nascoste
Regia:
Sabrina Varani
Sceneggiatura:
Francesca Melandri, Sabrina Varani
Fotografia:
Sabrina Varani
Montaggio:
Edoardo Morabito
Musica:
Edoardo Morabito
Cast:
Aster Carpanelli, Carmine Panico, Don Alessandro de Sanctis, Elfinesh Tegeni, Giorgio Manzi, Igiaba Scego, Major Shaleka Dejene Meshesha, Massimo Rendina, Teresa Melandri, Tewodros Seyoum, Valentina Carnelutti (voce/voice)
Produzione:
AAMOD, B&B Film

La scrittrice Francesca Melandri affronta per la prima volta l’eredità del padre, convinto fascista durante il Ventennio. Un passato per lungo tempo censurato dalla memoria familiare che, attraverso ricerche in Italia e in Etiopia, la figlia indaga e rielabora per il suo nuovo romanzo, confrontandosi anche con le rimozioni della memoria di un Paese e il violento passato coloniale.

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