Pippo Delbono

Profanare l'improfanabile

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«Profanare l’improfanabile», scrive Agamben, «è addirittura il compito politico della prossima generazione». Performativo. Provocatorio. Profanante: forse è questa l’espressione più puntuale per descrivere, in estrema sintesi, il cinema di Pippo Delbono, che cerca, in un tentativo titanico e inevitabilmente sanguinoso, la viscerale verità del sangue per mezzo di una forza poetica capace, allo stesso tempo, di inverare, internamente, tutto il reale.

Quando, conversando con Oliviero Ponte di Pino attorno a Guerra, Delbono dichiara: «Voglio comunicare, riuscire a trovare la poesia in cose estremamente semplici. L’eccesso di mediazione mi dà fastidio; è la poesia secondo me che salva», torna subito in mente il verso pasoliniano «non c’è altra poesia che l’azione reale».

Delbono, come Pasolini, ha bisogno di essere immerso nel reale, confrontarvisi senza filtri per coglierne la poeticità vivente; stare con e nello sguardo delle cose. Da qui la scelta di riprendere attraverso un videofonino o una minicamera per ottenere il massimo assottigliamento dello strumento di ripresa e poter essere fisicamente presente nelle situazioni, per forzarle, e filmare l’attimo che contemporaneamente si contribuisce a creare. Delbono elabora un metodo e uno stile in funzione dell’idea, e viceversa; o, secondo la formula godardiana, «une pensée qui prend forme, une forme qui pense».

Questo bisogno di vivere dentro le cose non sfugge le zone di rischio del realtà, ma le fronteggia. In Sangue Delbono addirittura affronta la Realtà ultima, la presenza irriducibile, per quanto si tenti di rimuoverla, della Morte: dato ineliminabile, l'unica verità non mistificabile con la quale tutti devono confrontarsi. Che l’ispirazione essenziale del regista e, per così dire, la cifra del suo pensiero rientrino nella tematica del lavoro del lutto, e che prevedano dunque non l’occultamento, bensì l’esplicitazione e l’analisi particolareggiata e minuziosa del dolore, è un dato evidente che caratterizza tutta la sua opera.

Delbono sa che il lavoro del lutto inizia solo quando la perdita è totale, e come tale percepita. Sceglie, decidendo di assecondare le circostanze, di filmare e imprimere gli ultimi gesti e parole, che somigliano a confessioni, della propria madre. Il progressivo dissolvimento fisico; il cancro: dati oggettivi e irreversibili, presenze scandalose e impronunciabili che irrompono con tutta la loro scandalosa e incontrollabile forza di Realtà. Il corpo di dolore della madre è il centro dell'inquadratura, il polo attrattivo della visione. Il figlio (e con lui lo spettatore) sa che tutto ciò è autentico, non può coprirsi gli occhi, deve guardare.

L’elaborazione deve corrispondere ad una precisa messa in forma che in Sangue si traduce in una vera e propria messa in scena. Delbono adotta quasi sempre un punto di vista forzatamente soggettivo che è conseguenza dell’esigenza formale di trasferire la connessione tra vita e opera a livello estetico. Una soluzione registica che accresce l’intensità della soggettività autobiografica e determina un’atmosfera di rispecchiamento e di circolarità dell’autore con lo spettatore, che si trovano così a condividere la medesima tensione. La solitaria cognizione del dolore (che tutti dovremo sostenere) viene così oggettivata e universalizzata. Questa non è che soggettivamente diminuisca, ma cambia di qualità e registro, diventando forse più tollerabile.

Ma Sangue, prima di ogni altra cosa, è il risultato di un rapporto di amicizia: quello tra Delbono e Giovanni Senzani, l’ex brigatista tornato in libertà dopo la condanna scontata di trent’anni per il rapimento e l’esecuzione di Roberto Peci. Un affetto segnato profondamente dal tema della morte: i due si conoscono dopo una messinscena di Racconti di giugno, spettacolo di Delbono che affronta la questione del lutto, sempre elaborato attraverso il vissuto dell’autore; si ritrovano per i funerali di Prospero Gallinari; entrambi condividono la malattia e la scomparsa, l’uno della madre e l’altro della compagna. Poi la presenza di Senzani evoca fatalmente e inevitabilmente una suggestione di morte: è l’onere che egli deve sostenere per quello che è stato e ha rappresentato.

Come il regista giustamente tende a sottolineare Sangue non è un film su, ma con un ex brigatista. Delbono non commenta mai, fissa l’evidenza. Sa solo quello che vede: il comportamento del suo interlocutore, le parole delle sue labbra, ma non le motivazioni che possono spiegarle. Quest’attenzione per i puri atti porta lo spettatore a farsi strategia ricettiva e percettiva, concentrarsi sul taciuto e l’inespresso, mettersi in contatto personale e diretto con l’opera che a tale scopo lascia, programmaticamente, volontariamente, spazi vuoti da colmare e interpretare.

Con Sangue Delbono accosta due figure, e quindi due realtà, antinomiche: sua madre Margherita e Senzani; la spiritualità nella dimensione quotidiana e l’applicazione estrema dell’ideologia rivoluzionaria. Perché, come dice Godard in JLG/JLG. Autoritratto a dicembre, il cinema è questo: cercare delle relazioni possibili tra le cose e le immagini e «più i rapporti fra due realtà accostate saranno lontani e giusti, più l’immagine sarà forte».

 

 

 

Sangue
Italia, 2013, 92'
Titolo originale:
id.
Regia:
Pippo Delbono
Sceneggiatura:
Pippo Delbono
Fotografia:
Fabrice Aragno, Pippo Delbono
Montaggio:
Fabrice Aragno
Musica:
Camille, Victor Deme, Stefan Eicher
Cast:
Pippo Delbono, Margherita Delbono, Giovanni Senzani, Anna Fenzi, Bobò, Coro e orchestra del Teatro San Carlo di Napoli
Produzione:
Casa Azul Films - Compagnia Pippo Delbono, Cinémathèque suisse, RSI Radiotelevisione svizzera, Vivo Films, Rai CInema
Distribuzione:
n.d.

Fine 2011. Pippo Delbono e Giovanni Senzani, ex leader delle Brigate Rosse recentemente uscito di prigione, decidono insieme di tornare sul loro rapporto con la violenza, con i sogni di rivoluzione e con il mondo d’oggi. Per un libro, o un film. Ma quasi che la realtà si facesse beffe dei loro progetti, la morte li sorprende. Pippo accorre al capezzale della madre malata, fervente cattolica nonché ex maestra elementare che detestava i comunisti. Mentre Anna, la moglie di Giovanni, dopo aver pazientemente atteso che il marito scontasse i suoi 23 anni di carcere, si ammala a sua volta.