Steven Spielberg

The Post

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La parola, la carta, il lavoro. Il cinema, la scrittura, l’etica. The Post sta racchiuso nella chiarezza dei suo elementi fondanti, nell’evidenza del suo stile. È una storia di giornalismo americano, del suo lato più nobile, quello che resiste al potere politico, che ne diventa il guardiano, che per etica professionale ne rende pubblici i retroscena arrivando a mettere in pericolo la sua stessa libertà d’espressione. Spielberg usa una lingua così sciolta e sicura da essere invisibile; la sua regia si fa strumento di una lezione propedeutica all’uso corretto della democrazia.

L’importanza delle rivelazioni contenute nei Pentagon Papers, l’insieme di documenti prodotti dall’amministrazione americana nel corso di vent’anni d’impegno in Vietnam (1945-1967), trafugati nel 1969 dall’analista Daniel Ellsberg e passati nel 1971 al «New York Times» e poi al «Washington Post», all’interno dei quali c’erano le prove delle menzogne di tre presidenti, per Spielberg è indissolubilmente legata alla pratica del lavoro giornalistico, prima ancora che alla sua etica. Da qui l’insistenza, nel film, sulla difficoltà di riordinare il materiale trafugato da Ellsberg: la fotocopiatura, la disposizione in una camera d’albergo o in un salotto, la fatica nel dargli un ordine e nel redazionarlo. Il compito riconosciuto ai giornalisti del «Washington Post» è quello, fondamentale, di trasformare la storia in documento comprensibile, tramandabile; quello di costruire un’eredità duratura.

Viene in mente ciò che scrive Andrew O’Hagan in La vita segreta - Tre storie vere dell’èra digitale, in cui lo scrittore inglese racconta la figura di Julian Assange e l’impatto dei cablo diplomatici resi pubblici da Wikileaks nel 2011: «Dopo la loro diffusione ho sempre coltivato la speranza che qualcuno facesse un serio lavoro di redazione, ordinandoli per paese, contestualizzando ciascuno di essi, fornendogli un’adeguata introduzione, elencando nel dettaglio ogni ingiustizia e ogni violazione, ma Julian pensava soltanto allo scoop successivo e, più ancora, a far baruffa con ogni detrattore che trovava su internet». E prima ancora: «A tutt’oggi, a distanza di anni, i cablo non hanno ancora ricevuto l’attenzione esclusiva che meritano. Hanno fatto il botto e sono stati lasciati marcire».

Ecco, Spielberg, in tempi di giornalismo digitale, di eccesso di informazioni, di notizie non verificate o non filtrate, usa il cinema per ribadire il compito portato a termine quasi cinquant'anni fa dai giornalisti del «Post»: quello di aver impedito alla Storia di marcire, confusa nella palude di parole dette, scritte, registrate, ma non stampate, non ordinate. Questa è la lezione più giusta e contemporanea del film (altrettanto giusta e contemporanea di quella sul ruolo della donna, certo, che però viene affrontata con un pizzico di malizia in più, meno evidente e per questo più insinuante, con quel carrello a seguire l'editrice del «Post» Katharine Graham fra due ali di donne all’uscita dal tribunale dopo la sentenza della Corte suprema a favore della libertà di stampa, o le riprese dal basso verso l’alto quando la donna entra per la prima volta, come un’intrusa o una paladina, nella borsa di New York). L’insistenza sulle macchine rotative, sui processi di stampa, sui rotoli di carta che scorrono, su una concretezza del prodotto e del lavoro giornalistico oggi quasi persa, è figlia di una retorica tipicamente hollywoodiana, e più ancora della fede di Spielberg nella supremazia del discorso pubblico su quello privato.

La scelta di Graham e del direttore del «Post» Ben Bradlee diventa vincente non tanto dopo la sofferta decisione di pubblicare i Papers o la battaglia vinta contro l'amministrazione Nixon (che per quanto non coinvolta per limiti temporali nei Papers fece di tutto per impedirne la pubblicazione): il sigillo arriva con la diffusione su altri giornali dei documenti top secret. Intervistato a un certo punto alla tv, Ellsberg ammette il proprio stupore per la reazione dell’ex presidente Johnson alla rivelazione dei documenti, piccato come se si trattasse di tradimento, di un danno a un’amministrazione o a un singolo individuo. «Which is very close», dice Ellsberg, «to saying, "I am the State"».

È quell’io dello Stato che la stampa annulla, e che Bradlee e Graham, con la loro condotta inappugnabile, contribuiscono ad abbattere. Il primo assumendo la responsabilità del proprio ruolo e pentendosi di aver in passato anteposto l’amicizia per i Kennedy all’obbligo di tenere desta l’attenzione sul suo operato; la seconda, da figlia, madre, nonna, figura pubblica e donna potente, sacrificando l'amicizia con Robert McNamara, l’ex Segretario della difesa sotto Kennedy e Johnson che aveva commissionato lo studio poi trafugato da Ellseberg. È tutto fin troppo evidente nello stile di Spielberg e nella scrittura di Liz Hannah e Josh Singer, ma è la chiarezza di un discorso collettivo che tutti devono comprendere. 

The Post celebra la stampa esaltando la pluralità di voci di cui è espressione. Pluralità che significa ascolto (con quelle telefonate fra più persone, dai membri del consiglio d'amministrazione del «Post» ai giornalisti della redazione), condivisione del lavoro, della lettura, delle riflessioni. In un grande film sul giornalismo a cui Spielberg si è probabilmete ispirato, Park Row di Samuel Fuller, le riprese della stampatrice linotype, di cui si racconta l’invenzione nella seconda metà dell'Ottocento, sono effettuate con lunghi piani sequenza che hanno lo scopo di restituire l’apertura e la trasparenza del giornalismo americano. È ancora una volta una questione di chiarezza, e in questo caso di regia: Spielberg riprende l'ampiezza di movimenti di Fuller e i suoi spazi ingombri di persone con l'intento di trasmettere la stessa idea di partecipazione, di costruzione della Storia. La sua è la voce della democrazia, la messinscena di un'idea di giornalismo e di un popolo chiamato a trovare le propri parole per esprimersi.

The Post
Usa, 2017, 118'
Titolo originale:
id.
Regia:
Steven Spielberg
Sceneggiatura:
Josh Singer, Liz Hannah
Fotografia:
Janusz Kaminski
Montaggio:
Michael Kahn
Musica:
John Williams
Cast:
Alison Brie, Bob Odenkirk, Bradley Whitford, Bruce Greenwood, Carrie Coon, David Cross, Jesse Plemons, Matthew Rhys, Meryl Streep, Michael Stuhlbarg, Sarah Paulson, Tom Hanks, Tracy Letts, Zach Woods
Produzione:
Amblin Entertainment, DreamWorks, Pascal Pictures
Distribuzione:
01 Distribution

1971: Katharine Graham è la prima donna alla guida del «Washington Post» in una società dove il potere è di norma maschile, Ben Bradlee è il duro e testardo direttore del suo giornale. Nonostante siano molto diversi, l’indagine che intraprendono e il loro coraggio provocheranno la prima grande scossa nella storia dell’informazione con una fuga di notizie senza precedenti, svelando al mondo intero la massiccia copertura di segreti governativi riguardanti la Guerra in Vietnam durata per decenni. 

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