CINEFORUM / 512

Il lungo addio

 

A ogni nuovo film, e segnatamente in questo ultimo Il cavallo di Torino, sembra che questa consapevolezza affiori più chiaramente. Se è così la domanda è: cosa succede quando si arriva al centro della spirale? E soprattutto, Il cavallo di Torino a che punto è di questa spirale? Le dichiarazioni di Tarr in occasione della presentazione del film confermano le voci di un suo ritiro, in parte perché fiaccato da perenni difficoltà produttive e altrettanti problemi a livello distributivo (nove lungometraggi realizzati in trentaquattro anni di carriera), soprattutto perché consapevole che l’unica possibilità di continuare è diventata un ripetere senza fine.
Il lavoro sul tempo è senza dubbio l’aspetto più notevole di questi film, sia a livello della sua unità anatomica, la sequenza, che dell’intero film (anche non considerando il caso unico di Satantango con le sue sette ore e mezza, in quello di Il cavallo di Torino si tratta di film di circa centocinquanta minuti). Con László Krasznahorkai, che collabora alle sue sceneggiature a partire da Perdizione, Tarr mette a punto un dispositivo che svuota di senso l’azione rallentandola; non vuole semplicemente frustrare le aspettative del pubblico, ma annullarle del tutto, neutralizzare i nessi narrativi di causa/effetto. Mettendo in scena movimenti semplici e ripetitivi per così tanto tempo, innesca nello spettatore (perlomeno in chi è disposto ad abbandonarsi nel flusso del film) uno stato di attenzione intensiva, di appercezione.
Ma se ai tempi di Perdizione, nel 1987, gli sceneggiatori sentivano il bisogno di far dire al loro personaggio: «Sto seduto qui e guardo fuori, assolutamente invano. Per anni sono stato seduto qui. E sempre mi dicevo che sarei impazzito l’istante successivo. Ma non è mai successo e non ho paura di impazzire. Perché avere paura di impazzire vorrebbe dire avere qualcosa a cui aggrapparsi. E io non sono legato a nulla. Non mi aggrappo a nulla ma tutto si aggrappa a me. Vogliono che io li guardi. Che guardi la disperazione delle cose», dopo quasi venticinque anni, procedendo per sottrazione, Ohlsdorfer dopo aver consumato un pasto frugale si siede di fronte alla finestra, e basta.
Questi due personaggi sono l’estrema sintesi dei tipi umani rappresentati da Tarr: l’oscillazione tra rabbia e melancolia di Ohlsdorfer e lo sguardo naïf e impotente della figlia (Estike di Satantango, interpretata dalla stessa Erika Bók, e Valuska in Le armonie di Werckmeister). Come negli altri film, Il cavallo di Torino ha una sorta di personaggio supplementare sotto forma di agente atmosferico; in Perdizione e in Satantango era una pioggia incessante, in Le armonie di Werckmeister un freddo intenso e quasi palpabile, qui è un vento sferzante. Il paesaggio visivo e sonoro sono riempiti da questa raffica continua, perturbante e quasi soprannaturale. Anche lo spazio ha qualcosa di irreale: l’intera vicenda si svolge tra la casa, la stalla e il pozzo, oltre a questi elementi una sorta di argine che circonda tutto, un orizzonte molto vicino che blocca ogni prospettiva.
La speranza nel progresso è un’illusione, i tentativi di salvarsi, cambiare la propria vita, le rivoluzioni si rivelano sempre un falso movimento. Ohlsdorfer e la figlia tentano di evadere e rinunciano definitivamente in tre sequenze, i personaggi di Satantango credono o fingono di credere (per non decidere) ai vaneggiamenti di Irimiás riguardo al nuovo progetto di partire e fondare una comunità perfetta, dopo il fallimento totale del progetto precedente.
Una temporalità più vicina a quella circolare della classicità e della cultura orientale che non a quella lineare e legata all’idea di progresso e di redenzione della tradizione ebraico-cristiana. Una sorta di eterno ritorno senza l’accezione positiva della classicità, perché orfano e nostalgico della stessa possibilità di redenzione, perché in continua contraddizione con il bisogno di una fine impossibile.
Il cavallo di Torino è diviso in sei giorni, ogni giorno si ripetono gli stessi gesti, ogni giorno qualcosa viene a mancare. Il secondo giorno Ohlsdorfer riceve la visita di un vicino che gli chiede una bottiglia di liquore: non ha potuto andare in città a prenderlo perché la città non esiste più, è stata spazzata via dal vento. «Sconfitta e vittoria. Sconfitta e vittoria», dice il vicino «Ma un giorno ho dovuto ammettere che mi ero sbagliato pensando che un cambiamento sulla Terra non fosse possibile: questo cambiamento c’è stato». Il sesto e ultimo giorno padre e figlia rimangono chiusi in casa, al buio; il dottore in Satantango sbarra le finestre della sua stanza, rifiuta il mondo esterno; Il cavallo di Torino sarà l’ultimo film di Béla Tarr?