CINEFORUM / 514

Albert, Gillo, Luchino: i fantasmi di un " padre ragazzo"

di Anton Giulio Mancino

 

AMELIO SECONDO CAMUS

Amelio, prima ancora di farci un film, di immaginarne anche solo la possibilità, ne ha strategicamente interiorizzato le dinamiche costruendosi addosso una parvenza autobiografica credibile. Simulando una perfetta e meditata trasparenza del sé, che i suoi stessi film da sempre lasciano intendere reclamando percorsi interpretativi in tal senso, è riuscito ad aggirare o fugare meglio la forte istanza o ingerenza conoscitiva che dall’esterno sembra minacciare la propria sorgente creativa. Con Camus i suoi presunti fantasmi del passato, familiare e storico, hanno trovato una precisa sistemazione autobiografica. A partire dall’autobiografia romanzata, appena dissimulata, incompiuta dello scrittore francese il regista italiano ha elaborato un solido passato di copertura: uno schermo dietro il quale trovare risposo, riparo e sicurezza. La successiva trasformazione di tale schermo protettivo offerto da Camus in schermo cinematografico ha consentito semmai il raddoppiamento del dispositivo memoriale indiretto.

 

IL PRIMO “PRIMO UOMO”

A innescare il meccanismo retrospettivo nel primo capitolo del libro è la forte impressione che il protagonista riceve dalla lettura dei dati anagrafici del padre sconosciuto e precocemente defunto: «Fu in quell’istante che lesse sulla lapide la data di nascita del padre, scoprendo nello stesso tempo di averla sempre ignorata. Poi notò le due date – “1885-1914” – e fece un rapido calcolo: ventinove anni. Un pensiero lo colpì all’improvviso e lo scosse. Lui di anni ne aveva quaranta. L’uomo che giaceva sepolto sotto quella pietra, e che era stato suo padre, era più giovane di lui. E l’ondata di tenerezza e di pietà che d’un tratto gli riempì il cuore non era quello slancio dell’anima che spinge il figlio verso il ricordo del padre scomparso, ma la compassione e il turbamento di un uomo fatto davanti a un ragazzo ingiustamente assassinato – era una cosa fuori dall’ordine naturale, e in effetti non poteva esserci ordine, ma solo follia e caos, dove il figlio era più vecchio del padre. […] Guardò le altre lapidi del settore e capì dalle date che quel terreno era costellato di ragazzi che erano stati i padri degli uomini brizzolati convinti di vivere in quel momento» (1).

 

IL SECONDO “PRIMO UOMO”

Come il maldestro Antoine Doinel di I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959) di François Truffaut che desume letteralmente da Honoré de Balzac l’episodio della morte di suo nonno per il compito in classe di francese anche Gianni Amelio in un certo senso “ruba” ad Albert Camus lo schema del ricordo paterno: «Io ho avuto», racconta «sul piano personale, su un piano molto privato, uno shock da adulto, quando, avendo di gran lunga superato l’età in cui mio padre mi ha generato, ho valutato che età avevano i miei genitori quando io li vedevo adulti. Per esempio un giorno ho pensato a mia madre morta e ho realizzato che avevo dieci anni più di lei quando è morta. Mio padre mi ha generato che aveva diciassette anni (e mia madre ne aveva quindici), e quando è partito per l’Argentina non aveva ancora ventun anni. […] Improvvisamente, quando è morto davvero, non l’ho visto più come mio padre, l’ho visto come un essere che a undici anni è stato lasciato da suo padre, a diciassette ha avuto un figlio, a diciotto ha avuto una figlia, a ventuno è partito per cercare suo padre» (2).

Insomma, chi è che parla, Amelio o Camus, magari per bocca di Amelio? In questo montaggio incrociato senza soluzioni di continuità la palla passa a Camus: «Ma ora gli sembrava che quel segreto che aveva cercato con avidità di conoscere attraverso i libri e le persone, fosse intimamente legato a questo morto, a questo padre ragazzo, a ciò che era stato ed era diventato; e di aver cercato lontano ciò che gli era vicino nel tempo e nel sangue» (5). Ed è sempre Camus, dopo questa premessa, a scrivere che il suo alter ego Jacques Cormery – spianando la strada alla memoria e alle parabole infantili de relato di Amelio – «poteva finalmente dormire e tornare all’infanzia da cui non era mai guarito, a quel segreto di luce, di povertà calorosa che lo aveva aiutato a vivere e a vincere ogni cosa» (6).

 

 

La casella o la tomba resta infatti vuota, ora più che mai. Si potrebbe provare a riempirla con i padri cinematografici, con cui inevitabilmente un regista cinefilo e profondamente consapevole della storia del cinema come Amelio si trova ogni volta a dover fare i conti. Se in Il ladro di bambini e Lamerica ha fatto i conti con il Neorealismo e in particolare con Roberto Rossellini (Roma città aperta [1945]; Germania anno zero [1947]), o in Così ridevano (1998) con l’eredità melodrammatica di Luchino Visconti (Rocco e i suoi fratelli [1960]), nel suo Il primo uomo i padri putativi, scomparsi, respinti, persistenti sono Gillo Pontecorvo o daccapo Luchino Visconti. L’eredità da riconfermare, confutare, capovolgere mette in moto ancora un gioco di ombre paterne.

Del resto i «cenni all’OAS, all’“Algérie Française” e alla Rivoluzione algerina, che Visconti lasciò circolare come propria primitiva intenzione» (9), non solo non si sono concretizzati nell’originario, ambiguo “progetto” di Lo straniero, ugualmente coprodotto dalla Casbah Film, «che possiamo definire storico-politico, di attualizzazione del testo sullo sfondo di un’Algeria travolta da una guerra fratricida», ma nemmeno in quello contiguo teatrale di Troilo e Cressida in cui «ambientare la storia scespiriana della guerra fra Greci e Troiani nell’Algeria in lotta fra algerini e francesi: un’idea alquanto peregrina che rimase allo stadio di progetto» (10). Fantasmi paterni, atti, progetti e film mancati, opere incompiute come testi e pretesti per una storia del cinema italiano che torna sui suoi passi in cerca, da un altrove all’altro, di occasioni aperte di riflessione e riscoperta, riscrittura e riscatto.