CINEFORUM / 515

La finanza e il suo corpo

di Pietro Bianchi

L’astrazione del capitale

Tuttavia non si può negare che Cosmopolis venga attraversato da un problema tutt’altro che attuale, ma che anzi aleggia sulla storia del cinema da molti tempo, fin dalle sue origini (quanto meno da Ejzenstein). Come è possibile mettere in immagini il capitalismo? Come è possibile mettere in immagini ciò che orchestra con una logica sottile, contro-intuitiva e astratta l’intero mondo? Le merci viaggiano per cinque Continenti, vengono lavorate e toccate da molte mani, attraversano mondi e spazi culturali diversissimi e tuttavia il capitalismo è sempre in grado di riunirle e fare co-esistere facendole parlare l’unica lingua che tutti – nessuno escluso – conoscono alla perfezione: quella del denaro. La finanza che di questa logica espone il nocciolo più puro è per eccellenza il luogo dell’astratto, dell’immateriale, dove la concretezza delle merci, del lavoro, dello sfruttamento e delle vite umane assume le fattezze fantasmatiche della figura numerica. Come è dunque possibile mettere in immagini ciò che è puramente numerico? Come è possibile ridurre alla sensibilità di ciò che si dà a vedere, ciò che strutturalmente è riluttante a essere concretizzato? Se diamo un’occhiata ai canali televisivi che si occupano di notizie finanziarie vediamo che le immagini che vengono utilizzate sono sempre le stesse: broker finanziari al telefono a Wall Street; sequenze di numeri digitali che scorrono su degli schermi al plasma, colletti bianchi seduti di fronte a un personal computer eccetera. È mai possibile che il capitalismo si dia a vedere solo nella forma paradossale di questa non-visibilità? Quale è l’immagine reale e non ideologica del mondo astratto del capitale? Qual è il corpo della finanza? Domanda cronenberghiana per eccellenza…
Il problema di come l’astrazione dell’accumulazione finanziaria si rapporti alla concretezza e alla vivida corporeità del lavoro ha un suo contraltare estetico e immediatamente cinematografico: si riflette nella domanda su come si possa creare un’immagine di un’astrazione. Qual è l’immagine sensibile di un’astrazione? Il corpo della finanza è dunque analogo al corpo dell’immagine. E la domanda su quale sia il corpo della finanza e quale sia il corpo (sotto forma di immagine o di corpi mostrati su uno schermo) di un’idea diventano in Cosmopolis due facce di una stessa questione.
Ma se nei film della coppia francese questo registro costituiva una precisa scelta materialista, l’effetto in Cosmopolis è invece quello opposto di rendere inattuabile ogni discontinuità e di far emergere una perdita di qualsivoglia temporalità simbolica. Che si parli dell’andamento dello yuan, delle rivolte che arrivano persino a fracassare la limousine, di massimi sistemi, di sessualità, di Rothko o di problemi coniugali, tutto sembra scorrere con la stessa placida indifferenza. Il declino di Eric Packer e del capitalismo finanziario è dunque un declino lento e inesorabile.
«Uno spettro si aggira per il mondo – lo spettro del capitalismo» si legge su un display in strada durante gli scontri degli anarchici che Eric Packer incontra sul suo tragitto. La frase d’apertura del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels viene capovolta. Lo spettro che minaccia il capitalismo non è più il comunismo, ma il capitalismo stesso. È il capitalismo che è diventato lo spettro di se stesso, il proprio peggior nemico. La più grande minaccia è non avere più alcuna minaccia: la sparizione di ogni possibile antagonista. E dunque Cosmopolis ci racconta il divenire di una capitalismo che oramai non fa altro che esprimere se stesso: «Lasciamo che si esprima» è la frase che dalla scena della visita medica in poi ricorre più volte nel film. Lasciamo che il capitalismo acceleri la sua corsa fino alle estreme conseguenze. Lasciamo che la sua logica domini fino alla più compiuta autodistruzione di se stesso.
La dimensione temporale è infatti il cuore della riflessione di DeLillo-Cronenberg: Cosmopolis è infarcito di riferimenti al tempo. La protesta «vuole tenere lontano il futuro», «bisogna distruggere il passato per creare il futuro». Eric Packer ha solo ventott’anni ma ha già consumato la sua epopea di successo. E che cos’è la ricchezza finanziaria se non una ricchezza che si basa continuamente sulla convertibilità in merce del futuro e dunque del tempo? Nel lento incedere della limousine di Eric Packer, dove passato e futuro si fondono l’uno nell’altro, dove è pure possibile riportare in vita le nostalgie di quando si era bambini (il taglio di capelli nel barbiere del padre), sembra che non esista nessun limite, nessun frontiera, nessun ostacolo. È qui che, ci piace pensare, Cronenberg colga l’elemento a lui più vicino del romanzo di DeLillo: quando il tempo e lo spazio non fanno più limite, l’unica discontinuità (e forse l’unica speranza?) è rappresentata da niente meno che il corpo.
L’imprevedibilità dello yuan è dunque analoga all’imperfezione della prostata, all’imponderabilità del corpo. Oltre il tempo, oltre lo spazio, oltre il completo denudamento, la totale perdita del proprio patrimonio finanziario e la discesa agli inferi vi è dunque almeno quell’imponderabile piccolo dettaglio che resiste a ogni livellamento dello spazio liscio della finanza. Cronenberg alla fine non si nega nemmeno questo, seppur minimale, momento di rifugio umanistico. Siamo sicuri che basterà come ultima risorsa contro la barbarie capitalistica?