CINEFORUM / 517

Ultimi giochi sul fiume

Pare che il cinema italiano goda di una vita sotterranea, estranea all’attenzione del grande pubblico, sacrificata da una distribuzione interessata alla commedia nelle sue varie e disimpegnate declinazioni o al nome di sicura presa, nell’ambito di una fidelizzazione dello spettatore che pare aver conosciuto pochi mutamenti nel corso degli ultimi vent’anni. Eppure qualcosa si muove. Non proprio in sala, sicuramente nei festival. Qualcosa che scorre parallelo al cinema di finzione e che si nutre di immagini reali, sistematizzate, talvolta organizzate, quasi sempre attese e poi ritagliate da metri e metri di pellicola girata e poi montata insieme per restituire aromi genuini di una realtà che pare svolgersi davanti agli occhi dei (pochi) spettatori.
Si prenda Comodin, trentun anni, formazione a Parigi e all’Istituto superiore delle arti dello spettacolo di Bruxelles, un piccolo documentario di apprendistato (Jagdfieber, il suo esame di diploma, nel 2009, proiettato anche alla Quinzaine de Réalisateurs di Cannes) e poi la sua opera prima, L’estate di Giacomo, appunto, che vince la scorsa estate la categoria Cineasti del presente a Locarno, più una serie di premi a Belfort, Jeonju, Corea del Sud, Lisbona. Recensione su «Variety», una pagina sui «Cahiers» in concomitanza con l’uscita in Francia, dal cui pubblico è stato apprezzato, forse perché ricorda, seppur da molto lontano, il Rohmer à la plage e il Téchiné di Les rouseax sauvages. In Italia, una fugace uscita estiva (a fine luglio) che ne depotenzia le possibilità perpetuandone la circuitazione d’élite (tra cinefili incuranti della canicola, appassionati delle arene estive e curiosi bisognosi di aria condizionata).
In L’estate di Giacomo entrano in contatto, sovrapponendosi, l’infanzia del regista, la volontà di osservare la natura dall’interno, la storia e il percorso personale di Giacomo Zulian, il tentativo induttivo di creare attraverso la grazia del particolare un fondamento universale. Il tutto unito in una tessitura continua, ancora più che minimale, pressoché essenziale. Alla base del progetto c’è l’intenzione di Comodin di raccontare la trasformazione di Giacomo, fratello minore del suo migliore amico, nato con un problema di udito che ha voluto correggere con un intervento chirurgico una volta giunto alle soglie della maggiore età. Comunque lo si veda, un passaggio. Decisivo per Giacomo, finalmente in grado di sentire ciò che per anni gli era stato precluso. Comodin ha seguito il ragazzo per un paio d’anni, registrandone piccoli frammenti di vita quotidiana, la sorpresa, la curiosità e i continui tentativi di conoscenza di una realtà tutta da scoprire. E lo ha fatto con immagini immediate, ruvide, spontanee, preoccupandosi della autenticità del girato più che della sua accuratezza.
Lo sguardo del regista si pone sui corpi, ma si muove insieme a loro, come se fossero gli occhi di un terzo amico, silente, pronto a catturare l’attimo, la più piccola emozione, a farsi testimone di discorsi zoppicanti, di minime rivelazioni su un universo parallelo, apparentemente staccato dal resto, e per questo sospeso, reso quasi edenico dal completo isolamento dei personaggi. Un amico che rivela la sua presenza, tramite le fronde che sbattono sull’obiettivo durante la ricerca del fiume, o quando Giacomo, in alcune occasioni, sembra percepirne l’esistenza indugiando con lo sguardo un attimo di troppo. Forse inavvertitamente, altro indice di estrema naturalezza.
Il percorso compiuto (da Giacomo, dal film stesso) è dato dal risultato finale, non dalla presunta progressione testimoniata dalle immagini. Più della mutazione di Giacomo, più della sua prima volta (comunque desunta, resa ellittica), più ancora della sua (presumibilmente) raggiunta maturità contano i gesti, le poche e spesso inconsistenti parole (acute, incerte e brusche quelle di Giacomo, necessarie e puntuali quelle di Stefania, probabilmente più adulta dell’amico), la prossemica di corpi che camminano vicini, che si sfiorano, che si stimolano ludicamente, che si stringono in un ballo simil latinoamericano alla festa di paese.
La pura osservazione in continuità, fedele allo svolgersi dei piccoli e genuini eventi, è da sola una scelta poetica, ribadita da un’affermazione di Stefania, forse la più importante del film, rivolta ad alcuni momenti di insoddisfazione cui dice di versare Giacomo («La felicità è nelle piccole cose, e tu non sai mai apprezzarla»). Gli interventi del regista sono rari, ma quei pochi indirizzano la pellicola lasciando avvertire uno scarto netto, una presa di posizione enunciativa che sposta decisamente l’asse del racconto, imprimendo accelerazioni interpretative ed effetti di senso laddove, fino a quel momento, il film era progredito soltanto attraverso la trasparenza di un’assidua illustrazione. Una canzone ascoltata nel computer che fa da ponte sonoro per giungere alla sequenza del luna park, un’altra (I Remember Fifteen Years Ago di Dupap) che commenta il viaggio di ritorno in bicicletta dei due ragazzi dopo la festa di paese, l’allontanarsi della cinepresa dalla bicicletta a suggerire un distacco dopo il raggiungimento del punto più alto, l’ellissi netta che interrompe bruscamente la liason con Stefania per mostrare il volto di un’altra ragazza, Barbara, simbolo di una nuova fase per Giacomo (a cui rimanda esplicitamente la voice over della ragazza, timorosa di una relazione che ha portato alla fatidica “prima volta”).
Sono gli unici momenti in cui si palesi una volontà narrativa maggiormente marcata rispetto al grado zero del racconto mostrato in precedenza (e in quest’ottica la riflessione over della ragazza rappresenta una sterzata troppo intrusiva, ingiustificata, viste le modalità aderenti al reale proposte fino a quel momento), in cui l’inquadratura era un’integrazione dell’aspetto più espressivo, quello sonoro. Infatti, compatibilmente con il rivelarsi di un universo acusticamente nuovo per il protagonista, quasi tutta la pellicola è organizzata sull’importanza percettiva di suoni e rumori, che sciabordando, stormendo, frinendo e cinguettando sostanziano immagini volte quasi esclusivamente a restituire i corpi dei personaggi all’interno dello scorrere placido del tempo. Immagini che sottolineano un’autentica assunzione conoscitiva da parte di Giacomo, più che un suo percorso personale, troppo ellittico e abbozzato per essere veramente compiuto.