CINEFORUM / 518

Reality House

di Lorenzo Rossi

La casa perché è locus fisico e mentale, la casa perché è l’ideale archetipo della proprietà di ognuno di noi e perché una volta che entra a far parte del celeste e tentacolare universo televisivo – anche se pare banale ricordarlo – essa diviene l’elemento che si pone in mezzo, e spacca in due (svuotandola di senso), la contrapposizione più tipica tra pubblico e privato. E non soltanto per via del fatto che, come molti hanno inteso, dai tempi in cui la televisione entrava nelle case della gente si è giunti a una contemporaneità nella quale sono le persone comuni che entrano nella casa televisiva, dando tutto un altro significato a termini come soggiornare, condividere e abitare. Ma anche perché attraverso la graduale appropriazione dello spazio domestico da parte di un medium quale quello televisivo – e Garrone sembra capirlo in maniera lampante – ciò che nel tempo si viene a originare è un nuovo modo di sentire, di vivere e di percepire la realtà così com’è. Un atteggiamento del quale uno come Luciano pare essere testimone e interprete privilegiato.
E la casa, in tal senso, assume un ruolo paradigmatico davvero imprescindibile. Diviene cioè l’elemento cardine per mezzo del quale la storia muta il proprio registro narrativo. È lo snodo che attraverso il potere evocativo della propria essenza consente di trasformare l’ordinario nello straordinario, ovvero consente di creare quel punto di rottura che da un lato costringe Luciano ad abbandonare la ragione per addentrarsi nel regno della follia e dall’altro permette al film di lasciare indietro l’illustrazione della realtà per aderire alle modalità narrative dell’onirico e della fiaba. Garrone in fondo ci invita a varcare una soglia. Ci chiede di entrare nella casa del protagonista attraverso modalità altre rispetto a quelle cui la televisione ha abituato il pubblico. È come se il linguaggio del cinema, dotato di tutta un’altra tipologia di modelli enunciativi, di rapporto con lo spazio, con il tempo e i personaggi, imponesse un’ottica capace di svuotare letteralmente gli ambienti del senso e della valenza di cui lo sguardo filtrato dal mezzo catodico li ha da sempre rivestiti.
Nell’istante in cui sfera pubblica e privata si fondono e diventano tutt’uno, ogni tipo di possesso diviene superfluo e il concetto di spazio intimo smette di esercitare un ruolo esclusivo e identitario. La casa, per dirla in altri termini, non è più un territorio abitabile, non è più uno spazio nel quale si conduce l’esistenza ma, al contrario, diviene un posto entro cui l’individuo non riesce più a concepirsi e a realizzarsi. La logica dell’apparire costringe quindi Luciano ad abbandonare la casa di famiglia per cercare di rintracciare il proprio ruolo entro un altro tipo di abitazione: quella televisiva. Un’abitazione “pubblica” che si riempie (di donne e di uomini) nel momento stesso nel quale quella privata lentamente si svuota. Del resto, come l’inquadratura finale del film ribadisce, è proprio lì, nella centralità della casa del Grande Fratello, luogo che come tutti i set televisivi rifulge di luce propria, che le ambizioni e i sogni (nel vero senso del termine) di tutti i Luciani d’Italia trovano compimento.
Forse Garrone sta pensando alla Carol di Repulsion (id., 1965) quando mostra Luciano che perde il senno fra le quattro mura di casa sua. O forse il grillo, insetto e animale dalla forte carica simbolica, abita l’appartamento come gli animali di The House (Namai, 1997) di Bartas catturavano le ossessioni degli abitanti della villa con la loro violenta carica allucinatoria. E proprio come è stato per tutto quel cinema italiano che per tutto lo scorrere della pellicola viene costantemente evocato, è possibile che anche altre cinematografie abbiano influenzato la scrittura degli autori di Reality. Come The Hole (1998) di Tsai Ming-liang per esempio: messinscena della casa come sorta di trappola nella quale l’osservazione dell’altro si erge a condizione di vita. O magari come in Shining (The Shining, 1980) ove la casa-hotel sembra abitare i personaggi più di quanto essi non abitino lei. In fondo un film tanto complesso quanto quello di Garrone permette di rispolverare e riflettere su un’infinta serie di modelli, esemplari e archetipi cinematografici alla cui suggestione è difficile sottrarsi. La fascinazione, del resto, sta nell’andare a cercare i rimandi nelle pieghe del racconto un po’ come negli angoli di un dipinto, di un affresco o, meglio ancora, nelle stanze nascoste di una casa.