CINEFORUM / 525

Libertà fatta di nulla

di Roberto Manassero

A voler andare ancora più indietro degli anni Ottanta, però, risalendo all’inizio della nostra modernità, la genesi del nulla su cui edifichiamo le nostre crisi la si ritrova alla fine dei Cinquanta, nei primi Sessanta, negli anni del trionfo capitalista seguito al dopoguerra, al tempo cioè della serie tv più bella, influente e vintage di tutte, Mad Men ovviamente, che ha avuto l’intuizione geniale di legare l’esistenzialismo all’elaborazione del linguaggio della pubblicità e da lì in poi si è schiusa a un universo di interpretazioni infinite, prima fra tutte l’immaterialità della contemporaneità, quel meraviglioso uomo invisibile che lascia orme sulla spiaggia nella campagna pubblicitaria che apre la sesta stagione ancora in corso.
In fondo lo sappiamo fin alla nausea che l’unica forma d’espressione capace di raccogliere l’eredità delle utopie sessantottesche è stata la pubblicità. Mica la politica. Ma un film come No – I giorni dell’arcobaleno dimostra come la politica possa rinascere proprio grazie alla pubblicità. Oppure, morire ancora di più perché risorta grazie a essa. Nel primo caso la menzogna dischiude la verità, nel secondo la verità cede alla menzogna. Dipende solo da cosa si è disposti a cedere, se la verità o la sconfitta perenne.
Il nulla veicolato da una promessa pubblicitaria che venticinque anni fa servì a un popolo per liberarsi dal suo dittatore, è diventato un dittatura prima di tutto estetica, poi anche politica, da cui non riusciamo a liberarci. Perché la pubblicità è una promessa di libertà mantenuta, sancisce la vittoria del desiderio individuale sull’imposizione dello Stato, ma al tempo stesso incatena a un futuro impossibile da possedere. E se oggi a Larraín non interessa troppo ribadire chi allora avesse ragione e chi torto (come si dice in questi casi, la Storia ha giudicato, e per una volta non si è sbagliata), con il suo film intende soprattutto risalire all’origine del futuro che allora si ipotizzava e che oggi viviamo. Un futuro da cercare nel passato, ricostruendo sì la storia, ma soprattutto la sua estetica, il suo sguardo, la sua immagine del mondo.
Se Mad Men, ancora, scandaglia il terreno di una società vittoriosa in cui il capitalismo da pratica economica diventava ideologia, in No la narrazione fasulla del commercio, il vuoto della pubblicità, lo scontro politico che da guerra criminale diventa guerra di apparenze, «copia della copia della copia», come dice al protagonista la moglie militante semiclandestina, riscattano l’umanità colpevole, la liberano dalla dittatura, e al tempo stesso aprono al vuoto su cui abbiamo costruito il nostro tempo.
La vittoria del No fu un evento grandioso, bellissimo, degno da essere recuperato per la sua carica rivoluzionaria, ma Larraín sa bene che c’è un solo modo per renderla moderna e dunque ripetibile: raccontandola con il linguaggio televisivo-pubblicitario di allora, trasformato oggi nell’unica forma di memoria possibile.
Pinochet è morto, insomma, la Thatcher pure, ma lo spot Coca Cola «in magica armonia», quello no, quello c’è ancora. O meglio, ci sono le copie delle copie delle copie di un originale perduto nel tempo… Ciò che il voto del 1988 ha lasciato non è solo speranza o cambiamento, ma anche una realtà in cui l’estetica pubblicitaria ha invaso ogni forma di pensiero e rappresentazione. E quelle immagini così belle eppure fasulle, così meravigliosamente nostalgiche e familiari, non sono tanto un ricordo quanto una prigione estetica in cui Larraín ha scelto deliberatamente di nascondersi, in attesa di una liberazione che in fin dei conti non arriverà.