CINEFORUM / 526

Il viaggio virtuale e luttuoso del camaleonte

di Roberto Chiesi

Fin dal titolo, Merde, l’episodio che Leos Carax aveva realizzato per il trittico Tokyo! (2008) – il nome del mostruoso protagonista ma forse anche un’imprecazione allo spettatore – era animato da una rabbia liberatoria, probabilmente causata dai quasi dieci anni di inattività del regista dopo l’insuccesso di Pola X (id., 1999). Una rabbia che si incarnava nella fisionomia deforme di un mister Hyde senza Jekyll, sporco e laido, la testa girata verso l’alto, un occhio bianco, le luride unghie lunghe, l’andatura trascinata in una danza sinistra (quasi come Jean-Louis Barrault in Il testamento del mostro [Le testament du Docteur Cordelier, 1959] di Renoir) che aggrediva selvaggiamente i passanti di Tokyo prima con atti vandalici, poi addirittura con cruenti attentati. L’episodio si concludeva con l’esecuzione capitale di Merde che invece diventava il teatro della resurrezione del mostro, fra Godzilla in miniatura e Fantômas degenerato: era anche la resurrezione del talento di Carax, che mostrava di non avere perso nulla della propria forza visiva e visionaria.
Con Holy Motors, Carax non realizza un unico film ma addirittura, secondo la sua stessa definizione, un “precipitato” di undici film (più il prologo), sperimentando con tratto sicuro undici registri diversi, allineati uno di seguito all’altro, quasi in spontanea reazione al decennio “bianco” trascorso dall’uscita di Pola X. Undici itinerari e registri narrativi e lirici uniti dal filo rosso di un’immagine semplice ed evocativa: una limousine bianca che percorre le strade di Parigi nascondendo, al proprio interno, il dietro le quinte, il laboratorio della metamorfosi di un uomo dalle undici vite sempre reversibili e mai definitive, sempre instabili e mutevoli.
Ma il paradosso più affascinante del film risiede nel fatto che la vitalità, il desiderio di raccontare, passando da una storia all’altra, da una vita all’altra, sfiora sempre accenti funebri o vi sprofonda con decisione. Fin dal prologo, dove l’autore stesso si mette in scena come sognatore e sonnambulo che attraversa una parete su cui è dipinta una foresta (una selva dantesca), memore di Hoffmann e Kafka, per entrare nello spazio amniotico di una sala cinematografica affollata di spettatori dormienti. L’autore sembra un revenant (solitario come Merde e come nell’episodio del 2008, accompagnato dallo stridio dei gabbiani) che penetra in un universo parallelo dove è assente ogni segno di vita.
Ecco così che le storie del film lasciano sempre trasparire i fantasmi dei film anteriori di Carax: la mendicante, prima metamorfosi dell’anziano miliardario malato di malinconia – e sua antitesi – ricorda il mondo dei diseredati e dei clochard di Gli amanti del Pont-Neuf (Les amants du Pont-Neuf, 1991), riecheggiato anche nella bellissima sequenza in cui casualmente la limousine di Monsieur Oscar – ancora con il trucco sul volto dell’ultima performance – incrocia la limousine di Eva/Jean, che ha la stessa pettinatura di Jean Seberg ed è stata amata intensamente dal protagonista in un’altra storia (appunto Gli amanti del Pont-Neuf). I due vagano come spettri in uno spazio fantasmatico costellato di manichini, relitti, rovine, dove campeggia uno scalone Art Nouveau che in realtà non è una scenografia ma uno spazio reale: gli enormi locali deserti della Samaritaine, leggendario emporio parigino diventato l’oggetto di una speculazione edilizia che ne ha causato la chiusura e simile a una nave fantasma arenata nel centro della città.
Carax riprende poi il mostro di Merde, conducendolo nel labirinto del Père Lachaise e creando una fulminea variazione sul tema della Bella e la Bestia, dove la flagrante erezione della Bestia rimane priva di conseguenze, appagata dalla visione della Bella avvolta da un burqa. Come gli spettatori del prologo, anche il Mostro si addormenta, rinunciando a qualsiasi atto.
Poi Carax si misura con registri per lui inediti, come il dramma psicologico, mostrando, ancora nell’abitacolo di un’auto nella notte, un padre che scopre le bugie e i complessi della figlia adolescente, quindi un’altra figura paterna, Mr. Vaughan – simile alla versione senile dell’astronauta di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) di Kubrick – dialoga in punto di morte con la nipote Léa, in una scena che in realtà è l’adattamento di un brano di Ritratto di signora di James. Ma l’autore si misura anche con un intermezzo musicale (Oscar, col cranio rasato, che suona la fisarmonica nella chiesa di Saint-Merri) e il noir, scambiando i ruoli fra assassino e vittima (come in Face/Off [Face Off, 1997] di Woo) e divertendosi a renderlo il sicario di un banchiere. Alla fine il viaggiatore di altre vite ritorna, triste e spossato, nel proprio alveo familiare che non è composto di esseri umani, ma di scimmie, ossia di animali che imitano e riproducono i gesti degli umani.

 

(1) «La mia passione per il cinema era – ed è sempre – terribilmente legata allo scorrere della pellicola, al motore nella macchina da presa. Da qui l’anomalia di Holy Motors: è una celebrazione dei motori e dell’azione, girata senza mdp (le mdp digitali sono dei computer, non delle macchine da presa)» (cfr. Leos Carax, Le cinéma est une belle île, intervista di Aurélien Ferenczi, «Télérama» n. 3259, 30 giugno 2012).

(3) Que sont mes amis devenus? Je dirais: des films, intervista di Olivier Seguret, «Libération», 3 luglio 2012.