CINEFORUM / 529

The Grandmaster di Wong Kar-wai

di Dario Tomasi

Sul piano dell’organizzazione visiva, delle modalità di messinscena e delle strategie narrative, The Grandmaster esibisce, senza per così dire quasi mai “strafare”, le caratteristiche soluzioni dell’estetica di Wong Kar-wai. Le immagini appaiono spesso assai “mediate”, attraverso una frequente presenza, secondo i casi, di velature (come per le riprese dietro tende che lasciano trasparire ciò che è di là da esse), di sfocature (Er Gong che fuma l’oppio), di riquadrature (la moglie che si stringe fra le braccia di Ip Man durante i bombardamenti giapponesi), di riflessi (il risciò del maestro Gong che si allontana visto attraverso una pozzanghera), di ombre (quelle del cancello nel combattimento iniziale) e di sdoppiamenti (il volto di Ip Man mentre si allena al muk yan jong, il manichino di legno).
Come sempre accade nei suoi film, Wong Kar-wai ricorre anche a numerose alterazioni della velocità di scorrimento delle immagini, non solo in occasione delle scene di combattimento punteggiate da diversi rallentamenti, e ai suoi cari effetti – anche se qui presenti in modo molto parco – di “passo differenziato”, in cui in una stessa inquadratura le figure umane si muovono a diverse velocità, naturale quella degli uni e alterata quella degli altri (come accade per Ip Man, che ha appena espresso la sua volontà di non collaborare con i giapponesi, e gli indifferenti avventori del ristorante in cui l’uomo si trova). Il carattere “mediato” delle immagini di Wong Kar-wai è anche testimoniato dal modo in cui a volte mette in scena i suoi personaggi, avviandone l’enunciazione filmica non attraverso il loro volto – la cosiddetta “immagine propria” – bensì mostrando prima qualcosa che si trova vicino a essi o un’altra parte del loro corpo (come accade, durante la loro inaugurale messa in quadro, per i personaggi della moglie e di Er Gong, di cui prima del volto vediamo, in un caso, la mano, e nell’altro, i piedi calzati).
Anche sul piano narrativo, The Grandmaster ripropone alcuni elementi costitutivi dell’opera complessiva del regista. Si vedano, ad esempio, l’uso della voce narrante che fra le altre cose si assume il compito di esplicitare, insieme ai sentimenti del protagonista, il destino dei diversi personaggi; l’ampio ricorso a ellissi che omettono diversi importanti momenti di passaggio della storia (niente ad esempio prepara l’incontro a Hong Kong fra Ip Man ed Er Gong) e creano così più di una voluta ambiguità; il ricorso a un certo numero di flashback e immagini soggettive; e una scansione della storia divisa in modo abbastanza netto in tre parti che precedono, accompagnano e seguono gli anni dell’invasione giapponese.
Alla tradizione del genere, Wong Kar-wai si lega soprattutto attraverso il motivo della successione dello shifu, il maestro di una scuola di arti marziali, e della vendetta contro il suo assassino. Vendetta che si realizza nella spettacolare sequenza alla stazione dove, dopo un’attesa quasi alla Leone, Er Gong, che ha rinunciato alla sua vita di donna per portare a termine la propria vendetta, ha la meglio sul cattivo discepolo Ma-san, colpevole anche di essersi alleato ai giapponesi. La scena trae gran parte della sua efficacia dagli effetti di dinamizzazione visiva prodotti del treno in corsa alle spalle dei due contendenti, corsa che si protrae sullo schermo per la durata di oltre quattro minuti, e dove le esigenze di verosimiglianza lasciano postmodernamente il posto a quelle di drammatica spettacolarizzazione. Il film esibisce anche, ben più di quanto tradizionalmente sia avvenuto nella storia del genere, una particolare attenzione, quasi didascalica, alla storia e alle tecniche del kung fu, oltreché al suo “spirito”, ma questo è un dato più frequente, come testimoniano le accurate descrizioni, sempre ben legate allo sviluppo delle diverse situazioni drammatiche, dei differenti stili delle diverse scuole (come lo Xin gyi, il Bagua e il Wing chun).
Fra queste la più carica d’implicazioni è certamente l’ultima, in cui i due personaggi – proprio come ripetutamente accadeva in In the Mood for Love – vivono la loro mancata storia d’amore in termini di messinscena, finzione e recitazione («Hai recitato bene nell’opera della vita»; «Sfortunatamente non hai mai guardato fuori dal tuo ruolo»; «Sono stata fortunata ad averti incontrato alla mia prima») attraverso un intenso dialogo che pone ancora una volta, nell’opera del cineasta, il tema dell’amore nelle forme del sogno impossibile a realizzarsi e del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato.