CINEFORUM / 530

Giustizia da sé nella Cina che cambia

Giustizia da sé nella Cina che cambia

di Dario Tomasi

Pur in forme in parte nuove, e certamente più dinamiche – Il tocco del peccato del resto è concepito anche quale un omaggio al cinema di King Hu, come bene testimonia il suo titolo internazionale –, Jia Zhang-ke continua qui il suo impietoso viaggio nella “Cina che cambia”, attraverso questa volta un film a episodi – con diversi rimandi fra loro – che percorrono il Paese da nord a sud. La continuità con i lavori precedenti è già testimoniata dalle stesse location, in particolare quelle dello Shanxi, la regione che ha dato i natali al regista e dove si ambientavano già i suoi primi film, e di Chongqin, città nelle vicinanze della diga delle Tre Gole, indiscussa protagonista di Still Life (Sanxia haoren, 2006). Ma a legare indissolubilmente questo film con tutta l’opera del cineasta è il ritratto sociale e antropologico che egli fa di un Paese la cui trasformazione socioeconomica sembra unire in sé il peggio del comunismo e del capitalismo, è a dire miseria e soprusi. Disseminato di violenze e morti, Il tocco del peccato si costruisce su quattro fatti di cronaca che sono evidente espressione di un diffuso e drammatico disagio sociale. Il più politico è quello del primo episodio, in cui il protagonista Dai-hai decide di vendicare lo sfruttamento del proprio villaggio, per opera di burocrati e neocapitalisti, imbracciando un fucile. Un tono più esistenziale domina, invece, la seconda storia che si concentra su Zhou-san, un uomo incapace di relazionarsi al resto del mondo, e per il quale la violenza diventa l’unico mezzo di sopravvivenza. Maschilismo e asservimento sessuale sono invece al centro del terzo episodio, in cui una donna, Xiao-yu, uccide un uomo per difendersi dalle violenze subite. Una storia d’amore impedita dal potere del denaro e, ancora una volta, dalla riduzione del femminile a puro oggetto di piacere, determina, infine, il gesto suicida del giovane Hui-xiao, nell’ultima delle quattro vicende. Nei diversi episodi di Il tocco del peccato, la “Cina che cambia” è rappresentata in tutti i suoi orrori, a partire da quelli del mondo del lavoro, protagonista anche in termini visivi dell’intero film (come testimoniano sia le frequenti immagini di minacciosi insediamenti industriali, che ricordano quelle dell’Inghilterra della Rivoluzione industriale, sia quelle altrettanto numerose della vita di fabbrica). Come già in precedenza, Jia denuncia non solo lo sfruttamento e le assai precarie condizioni di sicurezza delle fabbriche cinesi, ma anche l’abitudine a nascondere gli incidenti sul lavoro e ad attribuirne le cause agli stessi lavoratori. Non mancano poi i consueti riferimenti alla difficile realtà dei lavoratori migranti, veri e propri cittadini di serie B, e al crescente e insostenibile divario fra “vecchi poveri” (come la madre di Xiao-yu, costretta a perdere il proprio lavoro a causa della costruzione di una superstrada) e nuovi ricchi (con le loro Audi, Maserati e aerei privati). Alle generalizzate violenze dall’alto non possono che rispondere altrettante violenze dal basso (come l’iniziale tentativo di rapina o il pestaggio subìto dal camionista che vorrebbe una ricevuta da parte di coloro che hanno improvvisato un illegale pedaggio stradale). Al primato dell’ideologia si è sostituito il potere dei soldi, che è l’unica cosa a contare davvero (emblematiche la scena dove Xiao-yu è ripetutamente schiaffeggiata – sino all’insostenibile – con una mazzetta di banconote dall’uomo che vorrebbe comprare il suo corpo, e quella in cui Dai-hai, dopo essere stato violentemente preso a palate in testa, riceve in ospedale la visita di due uomini che gli danno del denaro purché la vicenda sia così chiusa). Un’analoga attenzione il film la presta all’imperante mercato del sesso che è, per una parte considerevole di giovani donne, l’unica possibilità di sopravvivenza loro e delle loro famiglie, e di qui un proliferare di esercizi dedicati a tale attività: dalle più modeste saune per soli uomini agli eleganti night club frequentati dai nuovi ricchi (provenienti anche da Hong Kong e Taiwan, in una vera e propria globalizzazione della prostituzione). Nella nuova Cina in cui dominano cellulari e tablet – che spesso non servano ad altro che a magnificare le logiche del consumismo firmato “Louis Vuitton” –, i retaggi del passato sopravvivono come reperti archeologici o come irriverenti parodie. Nel primo episodio e nell’epilogo, i protagonisti delle due vicende si ritrovano a camminare sotto antiche mura – probabilmente le stesse che si vedono in Platform (Zhantai, 2000) –; in più di un’occasione si assiste alle rappresentazioni di strada di alcune tradizionali opere da parte di attori itineranti che raccolgono a malapena un pugno di spettatori; sulla piazza di un villaggio si vede ancora un’imponente statua di Mao ma al suo fianco transita un camion che trasporta un quadro rappresentante una Madonna con bambino. A questo riguardo, la scena più a effetto è quella caricaturale in cui le intrattenitrici di un night si esibiscono davanti ai loro clienti indossando succinte divise dell’Esercito popolare di liberazione e intonando vecchie canzoni rivoluzionarie. L’insistenza sui “nuovi tempi” e su ciò che essi hanno cambiato della Cina del passato trovano una loro efficace sintesi nella battuta del Capo villaggio rivolta, nella prima delle quattro storie, a Dai-hai che lo ha appena accusato, con antico piglio rivoluzionario, della sua corruzione: «Hai scelto il momento sbagliato per metterti contro di me». Dai-hai, uomo che vuole solo giustizia, appare così come una sorta di anacronismo, qualcuno fuori tempo massimo rispetto al mondo di cui è parte, in tutto e per tutto analogo, almeno sino all’esplosione della sua rabbia, all’inadeguato Xiao-wu, “borsaiolo artigiano”, del primo film di finzione dello stesso Jia. Gli aneliti di giustizia non hanno né senso, né speranza nella Cina degli anni Duemila, neanche come semplice ideale. Ciò che rende particolarmente convincente Il tocco del peccato è anche la sua capacità di trascendere l’ambito della rappresentazione sociale e antropologica per aprirsi a una dimensione più universale, in cui la violenza e il peccato sono sì il frutto di una ben determinata realtà sociale ma anche qualcosa che appartiene in profondità all’essere umano in quanto tale. Di qui la ricorrenza dell’immagine simbolica della mela – il frutto del peccato – che apre il film (il carico di mele rovesciate a terra, Dai-hai che ne fa saltare una con la mano sino al momento in cui alle sue spalle avviene una vera e propria esplosione) e poi ritorna in diverse altre circostanze (Zhou-san che ne sbuccia meticolosamente una al figlio, l’amante di Xiao-you il quale chiede agli agenti che gli sequestrano un coltello come potrà fare a mangiare una mela…). Allo steso modo la natura istintuale dell’uomo, la sua connaturata predisposizione a reagire con violenza a ciò che lo denigra, o comunque lo ostacola, così come la violenza di cui è vittima, sono sostenute dal film anche attraverso la continua presenza di animali che assumono spesso una dimensione metaforica: il cavallo frustato del primo episodio, i bufali diretti al mattatoio del secondo, i serpenti del terzo e i pesci del quarto. A ben vedere anche la storia di Dai-hai, che come detto appare la più politica delle quattro, presenta altri importanti risvolti: la molla che fa abbracciare al protagonista il fucile, la classica goccia che fa traboccare il vaso, ha, infatti, ben poco di direttamente politico. Essa è rappresentata dal modo in cui tutti incominciano a deridere l’uomo, dopo che la sua testa è stata presa a palate come una pallina da golf, chiamandolo appunto “Signor Golf”. È l’umiliazione che ne consegue, quell’insostenibile “perdere la faccia” che nelle culture orientali rappresenta spesso la peggiore delle onte, che determina la scelta di Dai-hai di regolare da solo i propri conti e di fare giustizia da sé, in un Paese che non sembra del resto offrire molte altre possibilità.