CINEFORUM / 531

Dall' autoapologia alla nemesi

DALL'AUTOAPOLOGIA ALLA NEMESI di Alessandro Uccelli

(Voltaire, Dictionnaire philosophique, Tolérance, Section II)

«Ce que l’homme fait à l’homme / Au mépris de toutes lois /

Ce que l’homme fait à l’homme / Prenant prétexte sa foi /

(Charles Aznavour, J’ai connu)

Passerò subito per quello che si lamenta delle traduzioni sbagliate o inefficaci, ma non serve rileggere i Seven Types of Ambiguity di William Empson per spiegare per quale ragione il titolo scelto da Joshua Oppenheimer sia intraducibile nella nostra lingua, se non a scapito della complessità di significati che veicola. Pongo questo nodo prima di tutto perché l’intensità poetica e tragica del titolo di questo film è parte integrante della sua struttura, della sua scrittura drammaturgica, ne fornisce una chiave di interpretazione ineludibile. L’oscillazione semantica di act, sostantivo e verbo, e dei suoi composti e derivati, come re-enact e actual (che, per esempio, sopravvive in spagnolo, dove actuar è traducibile anche con recitare), è mortificata dalla traduzione italiana, L’atto di uccidere, automaticamente identificato con l’azione di togliere de facto la vita a qualcuno. Eppure, il primo e principale paradosso è che nel corso delle due ore e mezza della pellicola non viene ammazzato nessuno. Ovviamente si parla, eccome, di uccisioni, e se ne rimettono anche in scena alcune: l’Act del titolo è anche questo, è azione scenica, oltre che l’atto criminale di uccidere; ma è anche la soppressione metaforica delle idee, del pensiero, della diversità. L’Act, in tutta la sua stratificazione, è l’oggetto del filmmaking, il meaning, se ce n’è uno, è il fine di questo processo.
Inizialmente, il progetto di Oppenheimer, condotto con Christine Cynn (con la quale ha girato, nel 2003, The Globalization Tapes), si sarebbe dovuto concentrare proprio sulle vittime: a questa fase sono stati dedicati tre degli otto anni di lavorazione, facendo ricerca territoriale, e raccogliendo interviste e memorie, tra mille difficoltà, censure, sequestri di materiale e altri interventi delle autorità locali e paramilitari. Da uno dei testimoni chiave di questa prima fase arriva lo sprone a incontrare i carnefici, occasione per spostare l’attenzione su di loro e sulla narrazione enfatica di se stessi che hanno costruito nei decenni, ma, allo stesso tempo, per raccogliere le informazioni sui luoghi e sulle modalità di questa carneficina. A questo punto tutte le porte si sono spalancate, i bulli ultrasessantenni disposti a consegnare a imperitura memoria i propri racconti.
«I crimini di guerra sono definiti dai vincitori; sono un vincitore, quindi posso dare la mia personale definizione, non devo attenermi ai parametri internazionali», dice Adi, uno dei sicari più lucidi che compaiono nel film. Sotto l’ombrello di questa logica del vincitore, gli eredi di questa generazione di killer sono schierati nelle fila della cosiddetta Pemuda Pancasila, un movimento paramilitare di estrema destra, che conta alcuni milioni di affiliati, che si definiscono orgogliosamente gangster, dichiarandosi enfaticamente “uomini liberi”, poiché il termine che li definisce in indonesiano è preman, una paretimologia lasciata in regalo dall’occupazione olandese, quando i vrijman erano gli intermediari a margine della legalità che agivano tra i coloni e le autorità locali, “liberi” in quanto dotati di un margine d’azione piuttosto ampio e connessioni con le più alte sfere del governo.
Il film-maker non può non far tesoro, nel montaggio finale, del primo contatto con questo anziano “eroe”: un sopralluogo su una terrazza assolata, quasi un ring brechtiano, dove con candore quasi fanciullesco mostra alla macchina da presa la sua infallibile tecnica di garrotaggio, messa a punto con una corda di pianoforte, per evitare di spargere troppo sangue, per limitare i danni collaterali. Questo incontro, inquietante a una prima visione, lascia trasparire, a una revisione, un’emotività soppressa, sotto la superficie; da qui, dal cha-cha ballato in punta di piedi in chiusura della ripresa, dal fatto che danza e crudeltà indicibile possano avere albergo nello stesso corpo, prende forma l’esercizio del re-enactment, della ri-drammatizzazione dei fatti del ’65.
La forza centrale di The Act, però, è il lavoro su Anwar: eleggendolo a protagonista ne documenta un percorso non dichiarato di autoanalisi, i cui confini sono sfuggenti, fin dalla prima visita alla terrazza, che lui stesso definisce “piena di fantasmi”; nella sua camera, Oppenheimer sembra insistere sull’armadio trasparente, come se fosse il contrappasso di una vita passata a occultare scheletri; poi, nell’esercizio del riguardare le sequenze più cruente, si fa progressivamente strada il rimorso, interpretato in chiave di karma; segue la presunta immedesimazione con le vittime, nella scena in cui lui stesso viene passato al fil di ferro, rivista coi nipotini, per giungere al lancinante momento finale, quasi una crisi da esorcismo, tenuta nel montaggio nella sua durata quasi insopportabile. Evidentemente non basta, ad assolverlo, il suo immaginario; non basta mettere in piedi la propria apoteosi, immersa nell’aerosol di una cascata tropicale, con le anime di due vittime pronte a premiarlo per essere state liberate.
Se il surrealismo è dato dalla temporanea sospensione dei parametri della realtà tangibile a favore dell’emergere dell’inconscio, The Act of Killing, soprattutto nelle sequenze musicali, è una delle esperienze surrealiste più efficaci che si siano mai fatte al cinema: anche perché alimentata da una materia profilmica che è comunque, alla radice, di natura potentemente documentaria. «A documentary of the imagination», dice il regista; certo, una finestra su un immaginario rivoltato e per molti aspetti rivoltante, che mette radicalmente in discussione i confini tra fiction e non-fiction, lasciandoci, in compagnia di Herzog e Morris che hanno “adottato” quest’opera, come le ballerine che punteggiano gli stacchi musicali del film, affacciati al ventre buio di una balena.