CINEFORUM / 534

Tra vita e cinema

TRA VITA E CINEMA di Adriano Piccardi I film di cui leggerete in questo numero intrecciano fra loro – nelle molteplici scelte di rappresentazione – due temi conduttori di racconto abbastanza identificabili e contornabili. Il primo è quello del controverso rapporto padre/figlio: sempre più sfumato ma di fatto irrinunciabile, in grado sempre di emergere e di imporsi anche nelle situazioni che a priori sembrano soffocarlo per via del contesto o dell’inadeguatezza dei singoli. Si va dal padre mitico, archetipico, rivisitato nel film di Aronofsky: il padre folle, ossessionato dalla colpa e dalla volontà di punizione radicale eppure – inconsciamente – addirittura troppo umano per reggere la sua conclusiva rinuncia al ruolo di giustiziere arrogatosi nell’equivoca (?) interpretazione del dettato divino. Per passare attraverso la figura di Antonio, padre ossessionato dal timore di un lutto che si trasforma in rifiuto “preventivo” di salutari e salvifiche relazioni umane con “stranieri”, diversi che riflettono, senza che lui se ne renda conto, la sua stessa posizione di diverso in una società che non ama confrontarsi con la presenza della malattia e della morte, preferendo affidarne gli scomodi portatori/vittime a personale e ambienti specializzati e opportunamente escludenti. Ma anche attraverso la paternità metaforica rappresentata dal “rieducatore” Georges Devereux, capace di condurre il suo problematico paziente fuori dai labirinti traumatici in cui cultura e vissuto individuale si intrecciano e si potenziano a inibirne la capacità di confrontarsi con la prova dolorosa quanto entusiasmante che consiste nell’accettare realtà e affetti. E arrivare infine a un’altra prova, quella cui devono confrontarsi le due coppie del film di Koreeda – tanto più ambigua, se possibile, e ingannevole nella sua richiesta di coraggiosa comprensione di una condizione genitoriale (questa volta la funzione paterna è complementare a tutti gli effetti a quella materna, presente e attiva) deviata dal “caso” eppure sinceramente vissuta nella sua incolpevole infondatezza. Il secondo tema è invece quello della deriva esistenziale, culturale, economica, storica di cui sono loro malgrado protagonisti individui “cani sciolti”. I risvolti di tale deriva vanno dalla commedia filosofica all’inquietante gioco degli specchi in atto nella complessa dinamica tra delitto individuale (ma quale individuo, in realtà?) e castigo sociale (che si autodenuncia nella sua sostanziale impotenza), alla drammatica messinscena del ricatto fondato su un’idea del corpo-strumento di profitto atto a procacciare un non ben definito futuro di lontananze e “libertà” (quale libertà, poi?). Ambiguamente “ottimista”, il film di Winspeare sembra aprire una porta alla speranza – ma lo è davvero o non si tratta piuttosto di una rinuncia cui conviene adattarsi per scoprirne “il lato positivo”? Il gruppo femminile protagonista del film si colloca, del resto, in una sorta di terra di nessuno, tra vaghe connotazioni familiari/parentali che giocano piuttosto con i fantasmi di un binomio terra/patriarcato ormai non più proponibile. Tempi complicati, proibitivi per chi cerchi di dare loro un senso (e a farne le spese è, naturalmente, chi vorrebbe più degli altri spendersi, in tutta buona fede, ad affermarne la possibilità – per quanto intricata). Nella divaricazione tra vita e cinema che si spalanca sullo schermo trova luogo il lavoro di chi (Anderson, Zelenka, in questo caso) indaga su questioni formali, dunque apparentemente secondarie, dedicandosi alla scommessa delle varianti narrative, delle ipotesi rappresentative, sondate nelle loro potenzialità a dispetto di ogni rischio di stallo, anche etico – e pro/vocatoriamente rivendicandone l’effettiva centralità. Sia che ci conduca a prediligere universi artificiali all’insegna della rinuncia e della nostalgia più “improduttiva”. Sia che ci confronti alla ipnotica sovrapposizione tra realtà e scena, in una sospensione di giudizio capace di rilanciare, per chi lo vuole, ma questa volta sotto forma di domanda, la frase cruciale: la bellezza (l’arte, il cinema, se volete) salverà il mondo?