CINEFORUM / 535

La sedia della felicità

TRA COMICITÀ E FIABA di Tullio Masoni, Paolo Vecchi Nelle pieghe della cinefilìa colta di Carlo Mazzacurati c’era spazio anche per la comicità e la fiaba, coltivate con entusiasmo quasi infantile. Ad esempio, amava Audace colpo dei soliti ignoti di Nanni Loy, del quale aveva scelto di parlare come film de chevet al festival di Alba, e Fantastic Mr. Fox di Wes Anderson, titolo poi parafrasato dalla Cineteca di Bologna, della quale era stato presidente, per la rassegna postuma a lui dedicata. La sedia della felicità ha rappresentato dunque un approdo in qualche modo necessario, in cui la commedia brillante e la fiaba trovano un punto di incontro e fusione di incantevole leggerezza. Della prima sposa in maniera personale ritmo, dialoghi e situazioni, reinventandoli in parte mediante l’utilizzo di due attori felicemente spiazzati rispetto al contesto veneto: la siciliana Isabella Ragonese, ammirevole nella definizione di un personaggio sfortunato quanto volitivo, il romano Valerio Mastandrea, impagabile per nonchalance e senso dei tempi, addirittura irresistibile quando pronuncia «El me cagneto» o «El me fradèl» con accento trasteverino. La seconda, a proposito della quale sarebbe forse possibile applicare qui la serie classica di funzioni proppiane, avvolge il film nelle sue atmosfere irreali, esibendo orchi in abito talare e animali minacciosi, streghe tatuate e gnomi che si esprimono più con la gestualità che con il loro linguaggio rudimentale, tetraggini di ville notturne e splendori di cime dolomitiche. La sedia della felicità ripropone tuttavia pressoché al completo gli elementi del cinema del regista padovano, a cominciare dal paesaggio del Nordest. Benché il contrappunto fiabesco li restituisca in immagini sovente colorate e luminose, i suoi non luoghi ci appaiono orfani della crescita impetuosa dei decenni passati, incupiti da una crisi che ha ulteriormente incattivito i piccoli squali come il Volpato del formidabile Natalino Balasso, oltre ad aprire ulteriori spazi alle infiltrazioni della liquidità cinese. All’interno di questa provincia-categoria dello spirito si muovono i perdenti cari a Mazzacurati, «persone comuni, magari un po’ stanche, che incappano in qualcosa che li costringe ad andare alla ricerca di un senso», come li definisce Emanuela Martini (1). Lettore infaticabile e appassionato, il regista trasferisce poi anche qui le proprie scelte letterarie, dall’incipit metaforico nel quale Dino legge notizie sulle balene che sembrano tratte dalle prime pagine di Moby Dick, alla finta sordità del fioraio indiano durante le trattative per l’acquisto di una delle sedie, che rimanda all’analogo stratagemma del padre della protagonista in Eugénie Grandet, al luciferino padre Weiner di Giuseppe Battiston, non indegno di tanti monaci dei grandi russi dell’Ottocento. Non mancano poi gli accenni al maestro Billy Wilder di La vita privata di Sherlock Holmes nel fasullo coming out di Dino che dichiara la propria omosessualità per sottrarsi alle foie dell’archivista sadomaso, o al fantasmagorico-onirico Emir Kusturica nell’ascesa di Bruna al santuario, a dorso di mulo e ingioiellata come una Madonna. Un film testamentario? Opera forse testamentaria, ma dal profondo e senza proclami, La sedia della felicità nasconde dietro le apparenze di una brillante levità un nemmeno tanto sfumato sottotesto di malinconia. Inoltre, esibisce la volontà di Mazzacurati di abbracciare quanti lo hanno accompagnato nel suo straordinario quanto appartato percorso, lo stesso che, a nostro modesto ma fermo parere, lo consegna alla storia del cinema come uno degli autori più importanti della sua generazione, l’unico forse ad aver saputo raccogliere il testimone degli amati Pietrangeli e Zurlini. Ecco allora, non per caso, gli attori – Roberto Citran, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando, Antonio Albanese – che si sono prestati a una serie di comparsate fulminee quanto esilaranti, ma anche gli sceneggiatori Doriana Leondeff e Marco Pettenello, il direttore della fotografia Luca Bigazzi, lo scenografo Giancarlo Basili, la costumista Maria Rita Barbera. Qualcuno ha affermato che bisognerebbe sempre pensare al film che si sta girando – al libro che si sta scrivendo, al quadro che si sta dipingendo, alla musica che si sta componendo… – come se fosse l’ultimo. Carlo Mazzacurati ha saputo lasciarci con l’eleganza, la discrezione, il senso dell’umorismo, l’umana simpatia e la profondità di sentire che hanno sempre caratterizzato la sua personalità, di uomo e di artista. Perché questa fiaba comica, pensata sulla falsariga della farsa nobile già sperimentata in La lingua del santo, A cavallo della tigre e La passione e messa in scena durante la malattia, pensiamo sia stata un vitale, onestissimo modo di contemplare la morte e di combatterla. La fiaba ci chiama alla saggezza scanzonata del divertimento, ma lo fa punteggiando l’intreccio con segni funerei e disinvolti nella loro natura di esorcismo. Comincia con la morte in carcere della madre del bandito, poi ci sono la telefonata a un tale che si chiama Becchin, la notizia che il padre dei due gemelli è defunto, la massima del passeggero dell’autobus secondo la quale la cosa più tragica nella vita è il trasloco, dopo la morte. E ancora la medium che interroga i trapassati prima di esserne posseduta, la lunga sequenza del cimitero in cui Bruna trova per caso la tomba della propria maestra (un richiamo a La giusta distanza), infine lo scenario intatto delle Dolomiti che confinano col cielo, mentre si insinua il dubbio sulla sorte del prete/pope, che alcune voci incontrollate vogliono sia sopravvissuto e giochi a carte con l’orso, come lo ritraggono i graziosissimi disegni di Roberto Abbiati che chiudono il film. In questa forma un po’ irridente e un po’ coraggiosa, un po’ agnostica e un po’ sublime, Mazzacurati ha saputo interpretare il conflitto che, prima o poi, ci riguarda tutti. Non possiamo che ringraziarlo. Post scriptum In un ambiente come quello dei cineasti e soprattutto dei critici, in cui l’esterofilia tende a far snobbare la buona letteratura italiana e prevalere l’estasi per gli stranieri – perlopiù tradotti, dunque per metà italiani – Mazzacurati ha stimolato la curiosità, quantomeno, verso autori, in particolare del suo Nordest, come Parise, del quale ha portato sullo schermo con sensibilità Il prete bello, poi Zanzotto, Rigoni Stern, Meneghello, Comisso… Con Cassola, del quale amava appassionatamente Il taglio del bosco, ha cercato di misurarsi con la riduzione cinematografica di Una relazione, altro libro molto bello. Sempre a proposito dello scrittore toscano, ma ricordandone altri come ad esempio Bassani e la Ginzburg, anni fa, parlandone con noi, bacchettò fra serio e faceto chi li aveva equiparati a Liala: «Ci vorranno alcuni decenni prima che vengano riparati i danni procurati alla cultura italiana dal Gruppo ’63». Come a dire, anche, che provocazione e ricerca vengono ad assumere una loro necessità in determinati momenti storici, ma che nessuna avanguardia, in quanto tale, può candidarsi all’eternità. <span style="\&quot;font-size:" 0.75em;\"="">(1) Emanuela Martini, Ai suonatori un po’ sballati e ai balordi come me, Catalogo del 31° Torino Film Festival, 22-30 novembre 2013.