CINEFORUM / 536

Ana Arabia

Il film è liberamente ispirato a una vicenda autentica, quella di Hannah Klibanov, un’ebrea polacca che, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, si era trasferita in Israele dove, dopo essersi sposata con un muratore palestinese, si era convertita alla religione musulmana, sfidando i pregiudizi della propria comunità, da cui era stata ripudiata. Una storia indubbiamente forte, che viene ad assumere, per Amos Gitai, una valenza esemplare, paradigmatica, e su cui il regista è intervenuto operando un’opportuna commistione tra i dati documentari e la fantasia, dando corpo alla figura, di pura invenzione, di Yael, la reporter decisa a condurre un’inchiesta giornalistica sulla vicenda recandosi a intervistare gli abitanti del miserabile quartiere periferico di Giaffa dove Hannah era andata a vivere insieme al marito. Se Hannah – che, dopo la conversione, aveva scelto di farsi chiamare Ana Arabia, ovvero “Io, l’araba” – è destinata a rimanere un personaggio invisibile, assente, una figura non vista, in compenso l’indagine di Yael diviene occasione di scoperta di un universo isolato e sconosciuto, irriducibile all’ovvio, una sorta di zona franca dove ebrei e arabi abitano gli uni accanto agli altri senza alcun problema.
Va precisato, a ogni buon conto, che quello che ci viene consegnato dal regista non vuole essere affatto un paesaggio da presepe, un’isola incontaminata, definitivamente sottratta alle tensioni della Storia e alle miserie della vita. Anche qui, in questo fragile luogo di tregua provvisoria («Il comune vuole espropriarci», dice qualcuno già nelle prime battute del film), le relazioni umane non sono esenti da contrasti anche meschini, a riprova di come l’equilibrio tra la diversità e il pregiudizio sia sempre precario. Miriam, che della madre conserva un ricordo accorato, struggente, ci dice che anche per i palestinesi del quartiere la scelta di Ana Arabia rappresentò uno scandalo: «Non l’hanno mai accettata: la trattavano come una nemica». Allo stesso modo, l’ebrea Sarah ha parole di amarezza nel rievocare il suo infelice matrimonio con Jihad, il figlio di Yussuf: «Furono anni e anni di inferno e di umiliazioni».
In Ana Arabia la scelta del piano-sequenza acquista i caratteri di un pronunciamento etico e politico («Il piano-sequenza è per me una parte essenziale per dimostrare che l’unità di forma può esserlo di sostanza, come la pace tra palestinesi e israeliani. Non ci sono tagli perché non voglio che ci sia un taglio nelle relazioni tra gli ebrei e gli arabi»). Per Gitai si tratta di suggerire, attraverso la continuità della ripresa, un’idea di quotidianità percepita come un flusso unico e ininterrotto di eventi minimi, apparentemente irrilevanti (l’offerta di una tazza di tè, Walid che cerca di riparare il motore di un’automobile, Yael che si arrotola una sigaretta, la visione di un albero in fiore…), e un’idea di uno spazio unitario, coeso, e tuttavia variegato, labirintico, costituito com’è da un dedalo di stradine, case scalcinate, vicoli, cortiletti, minuscoli orticelli, agrumeti, sterpaglie, ammassi di rifiuti e di macerie, entro il quale si fa inestricabile il groviglio di memorie, destini, ferite mal cicatrizzate, aspirazioni, lutti, rimpianti, separazioni, ricongiungimenti: le piccole storie personali di cui si compone il vissuto quotidiano degli uomini e delle donne del quartiere, i vicini di casa, i parenti e gli amici di Ana Arabia, a cui Yael concede la parola, scegliendo di ascoltare con rispetto e attenzione tutto quello che essi hanno voglia di raccontare.
Per contro, Yael, nei suoi interventi sempre misurati, esibisce un’ammirevole discrezione. La sua non è mai una presenza intrusiva o supponente. Come ogni buona giornalista che si rispetti, non pretende di dirigere il filo dei ragionamenti, imponendo ai suoi interlocutori gli argomenti su cui parlare. Ritagliandosi un ruolo marginale, appartato, Yael si limita semplicemente ad ascoltare le storie che si sente raccontare, lasciando campo libero alle voci che incrocia nel suo percorso, stabilendo con esse una vicinanza sempre più stretta, facendosene ammaliare. La sua curiosità e il suo stupore diventano allora la nostra curiosità e il nostro stupore. Del resto, il suo obiettivo è anche quello del cineasta, di cui diviene l’ideale alter ego: cercare di afferrare, di comprendere quella realtà nuova, inattesa, sorprendente, che si viene a offrire come un dono raro e prezioso alla sua attenzione, producendo in lei (e nello spettatore) un’emozione forte, che è anche conoscitiva. La lacrima che le scivola lungo la guancia al termine del suo peregrinare ci dice che l’ascolto ha saputo dare i suoi buoni frutti.
L’immagine conclusiva del film – dopo la pudica lacrima di Yael, e dopo quell’albero di limoni tornato miracolosamente a rifiorire, lo stesso che era stato potato soltanto ottanta minuti prima, nell’incipit del racconto: ma la terra promessa, si sa, è anche terra di miracoli… – è affidata a uno scarto della macchina da presa, la quale, sulle note di Mahler, ora si alza lentamente sopra i tetti delle case ad abbracciare con lo sguardo prima i grandi palazzi della città moderna che torreggiano sullo sfondo, e poi il cielo luminoso, che arriva infine a occupare l’intero schermo, a voler suggerire, in modo discreto, un segnale di speranza, l’idea (il sogno) di uno spazio unico e indiviso, privo di frontiere, di confini, di recinzioni.