CINEFORUM / 541

Godard e il richiamo della foresta

Quella malinconia che aleggia nei film di Jean-Luc Godard fin dai primi anni Ottanta – accompagnata dal contrappunto di un’ironia caustica – ha finito per assumere nell’ultimo periodo tonalità più gravi. Diviene sempre più radicale il senso di disillusione e lutto che permeava le Histoire(s) du cinéma (1988-1998) e così adesso, tredici anni dopo Éloge de l’amour (2001), sembra venuto il tempo degli addii (1): Adieu au langage rifugge da qualsiasi solennità ma appare come il requiem convulso e magmatico di un’epoca e di una cultura in via di estinzione (2). Nel film udiamo la frase: «Vous me dégoûtez tous avec votre bonheur. La vie qu’il faut aimer coûte que coûte. Moi je suis là pour autre chose. Je suis là pour vous dire non et pour mourir. Pour vous dire non et pour mourir» («Mi disgustate tutti con la vostra felicità. Che bisogna amare la vita a ogni costo. Sono qui per un altro motivo. Io sono qui per dirvi no, e per morire. Per dirvi no e per morire»). Le ultime due frasi (in parte anche quella precedente) sono una citazione dall’Antigone (1941) di Anouilh, tragedia della disobbedienza e della resistenza contro un’ingiusta interdizione dell’autorità. Questo pastiche del testo di Anouilh può essere considerato la sintesi di un’istanza che Godard ha declinato in forme diverse nell’intero corso della sua opera: il rifiuto. In Adieu au langage, il rifiuto investe la sottocultura della virtualità e le sue emanazioni (il culto aberrante della telefonia), come fenomeni che vanno in un’unica direzione: l’obliterazione del pensiero, quindi del comunicare e del linguaggio annullati da un’ipertrofia parossistica dei mezzi di comunicazione. Lo vediamo in una delle inquadrature iniziali: le dita che compulsano, come zampette di insetti, gli iphone alla ricerca spasmodica di immagini o parole che galleggiano nella cultura liofilizzata del mondo formato Google. Ma il rifiuto del presente da parte di Godard passa attraverso la sperimentazione di quegli stessi oggetti che pervadono la contemporaneità: se ne impossessa non solo per comunicare, attraverso di loro, il suo rifiuto ma anche per usarli come quasi nessun altro li usa. Il minuscolo eremo svizzero di Rolle, infatti, costituisce ancora il laboratorio e il set domestico dove l’alchimista di Si salvi chi può (la vita) (Sauve qui peut (la vie), 1980) miscela da oltre trent’anni le immagini girate negli spazi prospicenti e interni della propria abitazione con quelle attinte dai film celebrati o misconosciuti del passato e con lacerti di documenti audiovisivi d’archivio. Godard ha realizzato Adieu au langage nell’autunno del 2012, non soltanto adottando cinque macchine da presa GoPro (e un’equipe come al solito ridotta, di cinque-dieci persone), ma anche usando smartphone e macchine fotografiche digitali. L’esito sperimentale più significativo riguarda l’adozione del 3d. Dopo il cortometraggio Les Trois désastres, episodio di 3x3d (2013), è la seconda volta che Godard gira in 3d e il risultato estetico è straordinario: nelle sue mani la tridimensionalità diviene un dispositivo per imprimere una densità materica ai cromatismi e una spazialità straniante ai paesaggi naturali, “giocando” con la disgiunzione dell’immagine vista dall’occhio sinistro e dal destro e così arrivando a filmare ciò che non si vede: «Peindre qu’on ne voit pas», la frase citata nel film, deriva dal Jean Santeuil dove Proust evoca il quadro di Monet Bras de Seine près de Giverny. Adieu au langage è il nuovo film-laboratorio di un grande pittore delle immagini in movimento, dove le forme e i cromatismi autunnali della natura, le linee e i disegni degli alberi, la superficie acquea del lago, le luci iridescenti od opache, il lento movimento di una nave che attracca, il giovane, agile corpo nudo di Ivitch, le corse selvagge di un cane nella natura, perfino l’acqua della pioggia sul parabrezza, la materia fangosa del terreno fradicio eccetera, compongono le tessere di un’iconografia “rubata” alla realtà che rimanda sempre ai fenomeni fisici e figurativi della natura. Questi “quadri” viventi e reinventati dalle saturazioni cromatiche e da altri effetti, si contrappongono all’asettico, indifferenziato, degrado audiovisivo con cui viene quotidianamente inquinato lo sguardo, al “mondo Google” dove «la non-pensée contamine la pensée» («Il non pensiero contamina il pensiero»). «Don’t know when we’ll be back» Anche in Adieu au langage il corpo delle immagini filmate da Godard a Rolle o a Nyon sono continuamente assediate dallo spettro delle immagini del passato – siano queste prelevate da documenti d’archivio o da film del patrimonio – che interagiscono con le prime, creando rime e assonanze visive. Le une e le altre, manipolate nei cromatismi e nella velocità, si rispondono in una continua dialettica fra il presente e il passato e i morti che continuano ad abitarlo. La sovrimpressione di due immagini di diversa origine crea, nella nostra percezione, una terza immagine, secondo l’antica regola godardiana che la risultante di una più una è uguale a tre. Oltre agli spettri delle immagini della storia, del cinema e della pittura (Van Gogh, Monet, Courbet, Warhol, Nicolas de Staël), Godard convoca, come sempre, anche le parole della cultura letteraria e filosofica (Alain Badiou, Maurice Blanchot, Pierre Clastres, Otto Rank, Rilke, Solgenitsin, Dostoevskj, Sartre, Naipaul). In una fugace messinscena, viene evocata Mary Shelley mentre stava scrivendo Frankenstein o il Prometeo moderno, romanzo anticipatore dell’uomo nato artificialmente in laboratorio. I frammenti di sequenze del cinema del passato scorrono per lo più in uno schermo piatto televisivo: Metropolis (id., 1927) di Lang, Il dottor Jekyll e Mr. Hyde (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1941) di Fleming, I ragazzi terribili (Les Enfants terribles, 1950) di Melville – cineasta prima amato, poi esecrato, poi rivalutato da Godard ma forse qui il vero oggetto della citazione è Cocteau… –, Vicino al mare più azzurro (U samogo sinego morya, 1936) di Barnet e Mardanov, la scena del bacio di Le nevi del Kilimangiaro (The Snows of Kilimanjaro, 1952) di Henry King, Avventurieri dell’aria (Only Angels Have Wings, 1939) di Hawks, La Terre (1921) di André Antoine. Proprio la scelta di inquadrarli all’interno di un acquario televisivo sembra evidenziare la loro provenienza da un’epoca remota. Ma il riferimento più significativo è all’opera non riconciliata di Jacques Ellul, che fu uno dei primi a sostenere che la tecnologia non è mai neutrale e a prevedere che avrebbe finito per alienare l’individuo. Ellul era persuaso che Hitler, sconfitto e suicida, fosse il vincitore morale dell’ultima guerra mondiale, nel senso che, dopo il 1945, ha trionfato proprio l’abbruttimento anonimo dell’uomo-massa e ha trionfato la “dittatura della tecnica” con l’azzeramento del pensiero e l’annichilimento delle coscienze. Anche in Adieu au langage riaffiora il ricordo ossessivo della Shoah nelle parole che rievocano un atroce episodio: «Quando entrò nella camera a gas un bambino domandò: “Perché?” a sua madre e un ss gridò: “Hier ist kein warum!” (“Qui non c’è perché”)». Anche nella società pacificamente massificata del presente non c’è più spazio per il dubbio (cioè per il pensiero) e nelle prime sequenze vediamo campeggiare ironicamente una scritta che riporta «Usine à gaz» (la fabbrica del gas, in realtà un centro culturale di Nyon). Non senza faziosità, Godard arriva al punto di distorcere la cronologia, facendo erroneamente coincidere la data dell’invenzione della televisione (1926) con quella dell’avvento di Hitler al potere (1933). All’orrore e alla stupidità della sottocultura tecnocratica, l’irriducibile umanista Godard oppone quindi l’esaltazione malinconica e disperata di ciò che rimane della natura. L’immagine della foresta («La tribu des Chikawa appelle le monde “la forêt”»), qui associata al corpo (più precisamente al sesso) femminile nudo (L’origine du monde di Courbet), ricorrono in questo film (e nel suo ultimo cinema) come esorcismi. Sopravvive anche la pratica magica, rituale, dell’arte come artigianato: si pensi alle immagini dove i pennelli vengono intinti nella tavolozza dei colori, durante le fasi preparatorie degli acquarelli. Al tempo stesso, Adieu au langage riecheggia anche il proprio cinema: la coppia che si tormenta in un interno domestico (nella vasca cola addirittura del sangue) e la dimensione della scatologia erano già presenti in Numéro deux (1975), per citare solo un titolo. Qui vediamo anche un beffardo riferimento al Pensatore di Rodin nell’immagine dell’uomo a una dimensione che defeca seduto sul cesso e invade la colonna sonora con i suoi peti. Il motivo del doppio (la coppia speculare) ritorna da Nouvelle Vague (id., 1990) e la frase «Une femme ne peut pas faire de mal, elle peut gêner, elle peut tuer, c’est tout», riecheggiava per la prima volta proprio in quel film, dove Lennox/Alain Delon, annegato dalla sua amante-padrona, resuscitava nell’identità di un “doppio” vincente. Ivitch e Marcus nudi che scendono le scale ricordano Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre dove è rimasto solo il cane: «Ce n’est pas l’animal qui est aveugle / Mais l’homme, aveuglé par la conscience / Est incapable de regarder le monde» («Non è l’animale che è cieco / ma l’uomo, accecato dalla coscienza / è incapace di guardare il mondo»). In Adieu au langage una speranza paradossale sembrano incarnata appunto dall’energia primordiale di un cane, che rimanda, inevitabilmente, alla solitudine dell’autore. Sulle ultime immagini si iscrivono le parole: «Don’t know when we’ll be back» («Non si sa quando si ritornerà»). Alla fine si sentono anche i pianti di un neonato ma è invisibile nel fuori campo.

(1) In realtà Godard ha dichiarato che “Adieu”, nel linguaggio corrente in Svizzera, equivale a “Bonjour”: «Ça, c’est dans le canton de Vaud, tout à fait. Il y a les deux sens, forcément…» (Cfr. Le cinéma, c’est un oubli de la réalité, intervista a cura di Philippe Dagen e Franck Nouchi, «Le Monde», 10 giugno 2014). (2) Per fortuna non rimarrà l’ultimo film di Godard che nel frattempo ha già realizzato un cortometraggio, Le Pont des soupirs, suo contributo a I ponti di Sarajevo (Les Ponts de Sarajevo, 2014).