CINEFORUM / 542

Prova d’attore tra rinascita e condanna

La prima impressione è la densità. L’affastellamento ipertrofico. Di spazi, di corpi, di situazioni. Di parole, accavallate e sovrapposte. Di luoghi, labirintici e fluidi. Di presupposti, numerosi e disseminati qua e là in modo apparentemente caotico. Una tendenza indubbiamente massimalista che parte dal teatro e investe una molteplicità di aspetti, alcuni accennati, altri più approfonditi. Includendo anche lo stile adottato, non certo inedito, tuttavia sorprendente, dichiaratamente ostentato e volutamente claustrofobico. Come se l’universo messo in scena fosse osservato su un nastro trasportatore pronto a scivolare via, attento alle dinamiche dei personaggi ma sostanzialmente indifferente alla loro sorte.
Il teatro come origine e pretesto per irradiarsi nella contemporaneità attraverso un complesso gioco di rifrazioni: è questo il meticoloso progetto organizzato da Iñárritu e dai suoi tre sceneggiatori Alexander Dinelaris, Nicolás Giacobone e Armando Bo (gli ultimi due già al lavoro con Iñárritu in Biutiful, e ora impegnati, tutti insieme, nella creazione della serie tv The One Percent). L’assunto si origina da una Mission sostanzialmente Impossible: adattare il racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore per il palcoscenico sulle ali di un flebile e benaugurante ricordo d’infanzia (il tovagliolino da cocktail su cui Carver scrisse una dedica al giovane Riggan Thomson al termine di uno spettacolo scolastico). Ossia, come cercare di rappresentare con piccoli tocchi l’articolato complesso di delicati squilibri borghesi, dotare del soffio vitale oggetti metaforici, animando, in questo modo, un intero ambiente, reinterpretare la quasi pudica sottrazione del linguaggio fino alla creazione di un codice comunicativo di tersa immediatezza. Il contrasto tra l’impianto allestito da Iñárritu & Co. e il minimalismo dell’oggetto dell’adattamento è evidente: evocare Carver, cercare di ridurlo all’ignorante (come recita il sottotitolo) tentativo di esaltare la propria natura di attore attraverso le sue idiosincrasie d’autore, significa scontrarsi palesemente con l’estremismo espressivo di un film che dell’eccesso verbale e stilistico fa volutamente la sua cifra d’elezione. E lo fa tramite un doppio filtro, perché Iñárritu moltiplica gli effetti espressivi della riscrittura di Riggan Thomson, che modella il testo in funzione della sua (ri)affermazione come interprete completo (attribuisce al suo personaggio battute che nel testo di partenza non gli appartengono, inserisce la scena del suicidio finale di Ed, figura di cui, invece, si raccontavano solo le drammatiche gesta autodistruttive davanti al tavolo di una cucina).
Carver e l’impossibilità di ridurre a concetto l’amore, così come l’antitesi fra il minimalismo dell’opera e il massimalismo del lavoro cinematografico che la narra (ma, volendo, anche la divergenza tra la sottrazione letteraria e l’addizione della trasposizione di Riggan), inaugurano l’intricato (e consistente) sistema di nette opposizioni su cui è organizzato l’intero film. L’amore di Carver e lo sforzo per catturarne l’ideale essenza espressiva sono il riflesso della crisi di Riggan, attore in declino da anni, padre «accettabile» (come afferma la figlia) ed ex marito distratto e aggressivo, schiavo del suo ego pronto a confondere l’amore con l’ammirazione incondizionata nei suoi confronti. La crisi di Riggan diventa quindi un’illusoria rincorsa del tempo e sul tempo, dei fasti di una volta, ma non solo. Tutto il presente di Riggan Thomson è vissuto su uno spesso filo di rimpianto del tempo perduto che il personaggio intende disperatamente riprodurre per dare un significato alla sua vita attuale: l’apice del successo è stato raggiunto all’inizio degli anni Novanta con i tre episodi della saga Birdman, ora è solo l’effigie appassita di un immaginario pop buono per una locandina affissa alla parete di un camerino o per una foto ricordo di nostalgici fan incontrati in un bar.
Il tovagliolino su cui Carver vergò la sua gratitudine dopo lo spettacolo scolastico, la figlia con la quale cerca di instaurare un rapporto mai avuto nominandola sua assistente, la moglie amata dalla quale si è separato a causa del suo egocentrismo dopato dalla celebrità hollywoodiana, la giovane amante che misura il desiderio di gravidanza dal ritardo con cui si manifesta il ciclo, l’ossessione per la coincidenza delle morti delle star che ne decretano la reale statura: la decadenza di Riggan è dovuta all’impossibilità di governare il tempo, da cui è invece letteralmente dominato, guidato fino alle soglie dell’annullamento (uno dei moniti che gli sbatte in faccia a muso duro il suo amico-avvocato-produttore Jake è «Non siamo più negli anni Novanta!», facendolo seguire dal più prosaico «Hai la cerniera aperta», che ben illustra l’annaspare dell’ex divo). Lo stile eccentrico utilizzato da Iñárritu, malgrado appaia come un gratuito tour de force, non è altro che la traduzione significante della crisi del personaggio, della sua frantumazione egotica sacrificata allo scorrere impassibile del tempo. L’unione di più piani sequenza, idealmente giuntati in one shot trick, i movimenti fluidi legittimati dal movimento dei personaggi e gli agganci con le altre figure incontrate nel backstage del St. James Theatre incarnano la materialità sensibile di questo scorrimento, nel quale il soggetto è trasceso dal tempo, venendone guidato e controllato, pur sfiancandosi nell’illusione di plasmarlo. Aspetto amplificato dallo score di Antonio Sanchez, fatto di sola batteria, un lucido groviglio di ritmi dispari, uno shittier sound (Iñárritu dixit) di urbana sporcizia, capace di sbriciolare il tempo della partitura e dei long take che accompagna con una modulazione di frequenze ossessive, metaforicamente schizoidi, apertamente stranianti.
L’opposizione più evidente, tuttavia, è quella tra alto e basso. Un autentico architrave su cui l’intero film è costruito. Contenutisticamente e graficamente.
Un’opposizione talmente articolata da far derivare tutte le altre. Tra ascesa (novantesca) e caduta (il recente passato), successo e insuccesso, Broadway e Hollywood, arte e consumo, presenza e assenza («Io non esisto», dice disperato Eddie/Riggan sul palco prima di inscenare/realizzare il suo suicidio), consapevolezza e ignoranza, prestigio e popolarità (la seconda come «cuginetta zoccola» della prima, dice Mike Shiner), Birdman ondeggia continuamente tra due poli, dalla prima all’ultima inquadratura. L’immagine dello stallo di Riggan è già tutta nel suo fachiresco porsi nella posizione del loto, levitato da terra, in mutande e di spalle rispetto all’obiettivo che lo ritrae nella prima inquadratura del film. Insieme smarrimento dell’identità, persa dietro la maschera di un noto supereroe (nella ovvia e più volte notata sovrapposizione con il Michael Keaton del Batman di Burton), tentativo di messa a nudo del suo vero essere, condanna in un limbo incastonato tra l’illusione di nuova ascesa e l’orrore di una definitiva caduta. Un’oscillazione che dopo un vorticoso giro di un paio d’ore su un ottovolante di innalzamenti repentini, speranze deluse e sogni infranti si condensa unicamente nei big eyes di Emma Stone, affacciatasi alla finestra della stanza d’ospedale rimasta vuota: uno sguardo preoccupato verso il basso, sull’asfalto, mentre si distingue il suono di alcune sirene; poi un altro verso l’alto, con la bocca che si distende in un sorpreso e rincuorato sorriso. La traiettoria dello sguardo di Emma Stone obbliga infine a una riflessione sul ruolo giocato dalla realtà. Non solo nel rapporto tra finzione e vita, sottesa allegoria di ogni pellicola sul teatro che in questo caso s’incarna nel Mike Shiner di Edward Norton, iperbolico applicatore (talvolta didascalico) del Metodo («La verità non è mai noiosa», risponde a Sam/Emma Stone con cui sta giocando a “obbligo o verità”, ennesima opposizione del film). Birdman, attraverso la densità di cui si parlava in precedenza, si colloca al di là della consueta distinzione e si pone domande di inestricabile soluzione, partendo da un assunto attribuito a Susan Sontag posizionato in un angolo dello specchio di Riggan: «A Thing is a Thing, not What is Said of That Thing». Arte e vita, reale e virtuale, concretezza e immaginazione, ma anche lo spettacolo e la sua redazione soggettiva che è la critica, sono miscelati insieme in un unico shaker percettivo il cui risultato non è la determinazione univoca della verità, ma proprio la propagazione del dubbio. I cinguettii, i video in mutande sul web a spasso per Times Square che generano quello che è considerato l’autentico potere, la pubblicità dei detergenti, i personaggi dei fumetti e i supereroi hollywoodiani, la stessa presenza ossessiva di Birdman come sdegnoso grillo parlante di Riggan sono la testimonianza dell’attuale superrealismo evocato come categoria con cui leggere il mondo dalla tracotante critica del «New York Times» Tabitha Dickinson. Pienamente nella realtà, ma oltre essa, ontologicamente. Immagine di un genocidio culturale che dell’ignoranza ha le subdole peculiarità, universalmente accettate come un soffocante gioco di società, ma non certo la virtù.