CINEFORUM / 545

Stato di grazia

«… nell’aperto di un’idea, in un’alba che viene e viene tanto che ti svegli».

I due versi della lirica in epigrafe, ultimi del testo, sono di Silvia Bre (1) e mi sembra che alla lontana (… e da vicino) contemplino un “tempo” simile a quello di Mia madre. Un tempo immaginario, non lineare, di veglia sonno e sogno, evocativo e prossimo. Un’ex allieva chiede a Margherita di non essere gelosa se le dice che sua madre, la professoressa di latino e greco, era stata mamma per tutti coloro a cui aveva insegnato. Così, dopo la morte del personaggio, l’anziana Giulia Lazzarini scambia sorridendo il primo piano con Margherita Buy, più giovane ma già sensibile ai tremori d’età: «A cosa stai pensando…», chiede Margherita, e Giulia risponde: «A domani». Sugli occhi arrossati di Margherita – personaggio e attrice – sul dolore, e il sollievo che il senso di pienezza regala, il film si chiude. Una bella sequenza, molto prima, aveva mostrato l’insegna del cinema Capranichetta, a Roma, e la lunga fila di spettatori in attesa di assistere a Il cielo sopra Berlino (Der Himmel uuber Berlin, 1987) di Wenders. Ora “accolta” dalla camera in un movimento all’indietro, ora seguita mentre cammina di fianco all’interminabile coda, Margherita discende nel proprio passato: incontra la madre più giovane, il fratello – che le raccomanda di fare, come regista, qualcosa di diverso e nuovo – se stessa ragazza alle prese con la fine di una storia sentimentale come anche nel presente accade. Con altra forma è ciò che potrebbe rivelare il ritorno forzato nella casa di famiglia: suona il campanello, e il rappresentante di un’impresa elettrica chiede, per spiegare i vantaggi della sua offerta, gli venga mostrata una bolletta. Margherita non sa dove cercarla, prova inutilmente, e accorgendosi di essere diventata estranea alla casa in cui ha vissuto, scoppia in lacrime. Mia madre disegna simmetrie, cerca rime in sordina, incastri ed ellissi. I larghi movimenti di macchina, l’avvicinarsi lento, lo spostarsi, talvolta legando fra loro circostanze diverse, rispondono credo a un bisogno di delicatezza. Nanni Moretti ha perso la madre amata mentre terminava Habemus Papam (2011); difficile non paragonare lo spaesamento del protagonista di quel film con questo – mnemonico o immaginativo – di Ada, che esce dall’ospedale in camicia e cammina verso il cancello fin quasi a “sfidare” il traffico della città.

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La “splendida ottantenne” Giulia Lazzarini (splendida Madre e nonna) in un’intervista esclude ci siano somiglianze fra il metodo di Strehler e quello di Moretti: «Strehler ammoniva di recitare stando a fianco, pensando in terza persona come Galileo, di essere epico per non diventare naturalistico» (2). Curioso. L’idea dell’attore che deve stare a fianco del personaggio è anche di Margherita: un tormentone confuso col quale la regista sorprende la compagnia e, alla fine, se stessa. Ma, al di là della concreta pratica sul set, mi sembra un principio a cui Moretti, in tutta l’opera, si è attenuto: raccontare e raccontarsi, anche narcisisticamente, in terza persona. La critica di chi non ama il film, e di una parte degli altri, riguarda perlopiù il personaggio di Margherita e l’ennesima proposta di “cinema nel cinema”; Tatti Sanguineti, per riportare una voce autorevole, afferma: «…penso che sia il suo più brutto film in assoluto. Lotta con La stanza del figlio, ma alla fine vince per distacco. Una regista stupida come il personaggio interpretato da Margherita Buy non esiste…» (3). Posso capire: il rischio era grande e anch’io all’inizio, nell’accorgermi che sullo schermo si stava girando un film, ho provato una spontanea diffidenza. Non penso però che la questione vada giudicata attribuendo al regista la replica di una stanca civetteria: il “cinema nel cinema”, e l’attendibilità del personaggio; credo invece che la scelta di Moretti, piaccia o meno, sia da intendere secondo una coerenza autobiografica – in senso largo anche La stanza del figlio (2001) e Habemus Papam erano autobiografici – e le alternanze di contrasto. È un caso che alla parte di Margherita abbia affidato gli aspetti (ricordo il brano della camera car) più comici e ironici? La stessa performance danzante di Barry-Turturro, non può essere una forzatura grottesca di quanto (ricordo La messa è finita [1985] o l’episodio In Vespa [1994]) il regista-attore aveva già improvvisato con accenni di ballo? La parte di Margherita sul suo set mi sembra insomma un “controcampo” autocanzonatorio e, come tale, andrebbe valutato. Ciò che fa, ad esempio, Giovanni Maria Rossi: «… Altro elemento che interseca gran parte del cinema di Nanni Moretti ricompare anche nell’ultimo lavoro: lo sdoppiamento speculare e metaforico tra la finzione della realtà (il racconto principale) e la realtà della finzione (la messa in scena di altre forme di rappresentazione), come se il regista volesse mettere a nudo il farsi e il disfarsi di un film in parallelo col farsi e il disfarsi della vita…» (4). Per conto mio, infine, non penso davvero che fra La stanza del figlio e Mia madre si disputi una gara sul peggio; al contrario, li vedo come l’inizio e la fine di una trilogia fondata sul lutto (anche Habemus Papam, in senso carismatico-spirituale, era un film sul lutto) e come indice di maturità artistica. Non sono mai stato un “apologeta” del cinema di Moretti, pur avendo apprezzato sempre la sua originale e vitalissima vena creativa; le ultime tre opere – con la loro finezza e, oserei dire, la libera considerazione di modelli drammaturgici depositati e “classici” – raggiungono a mio parere un equilibrio più alto. Così, mentre il suo protagonismo di attore diminuisce la regia cresce.

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Il fatuo collaboratore di Margherita, all’inizio, si entusiasma per gli effetti visivi dell’acqua in controluce; ma quell’acqua viene dagli idranti usati dalla polizia per disperdere gli operai che vogliono occupare la fabbrica. L’ambivalenza del simbolo: acqua come bene di nascita e male di dispersione o annegamento, trova una conferma quando Margherita, trovandola allagata, deve lasciare la propria casa e trasferirsi in quella di sua madre. Dormiva, e come ubbidendo a un richiamo si sveglia; scende dal letto coi piedi nudi e si accorge dell’acqua che ha invaso l’appartamento. Viene a mente il sogno di Amour (id., 2012), ma forse è una somiglianza involontaria; di certo quel risveglio potrebbe essere già, o ancora, parte di un incubo; e per l’incubo, in questa esperienza, non c’è bisogno del sonno. Adottando scambi immaginari, e appena percepibili cesure negli stacchi, il regista fa pensare all’ultimo Buñuel, cioè al passaggio “naturale” e spiazzante da sogno a realtà e viceversa, da sonno a veglia, da passato a presente a futuro, da vissuto (il narrare secondo gerarchie) a immaginato. Piccole perle di inosservanza cronologica, come la premonizione tragica e l’annuncio, brutale e al tempo stesso generoso, del fratello: «Margherita, la mamma è morta…». Per altro verso, con la figura di Giovanni il regista affronta di scorcio una tematica, quella del lavoro, che poi sfocia in una paradossale libera scelta. Come la sequenza del Capranichetta aveva indotto a una fuggevole nostalgia per il cinema in sala (Il cielo sopra Berlino è del 1987, e nonostante la crisi ormai matura ebbe un notevole successo di pubblico) così il ritorno al passato: la casa della madre, le fotografie, le toppe da cucire sul gomito dei maglioni, la memoria del latino e dei valori classici – « Dativo di possesso! Non so come mi è tornato in mente…» – induce alla riflessione sui modi di vita correnti e a un rifiuto “assurdo”. Anche la giovanissima Livia – interpretata da una brava e giusta Beatrice Mancini – forse si ricrederà: avrebbe voluto passare al liceo linguistico, più consono all’oggi, ma col recupero in latino potrebbe continuare l’esperienza del classico. Per amore della nonna? Certo, e per tutto ciò che la nonna rappresenta sul piano dei rapporti umani, della memoria, di una cultura che si coniuga col vivere quotidiano senza arroganza e senza facilità. Uno stacco mostra l’esplorazione della casa vuota con gli scatoloni sul pavimento pieni di oggetti e di libri: è già accaduto? Accadrà? Forse no. Almeno nel bisogno di una eredità morale da custodire i libri rimarranno al loro posto.

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Mia madre non è un melodramma; sembra però che col melodramma più autentico condivida intenti ed effetti: un film commosso, commovente. Per la seconda volta, dopo Aprile (1998), il regista non si affida a musiche originali, ma preferisce modulare le immagini su brani di Philip Glass (un quartetto), Arvo Pärt o Leonard Cohen. Una partitura discreta, e vibrante nella quasi sordina, salvo che per la cantata di Bevete più latte, ricordo di Rota, Fellini, del professor Antonio, e del fascino che immancabilmente Via Veneto e La dolce vita (1960) esercitano sugli attori americani: «Feliniii!! Voglio andare a Via Veneto!!» grida Barry-Turturro ficcando la testa fuori dal finestrino dell’auto. La seconda volta senza musiche originali non per caso poiché, come sottolinea Gianni Canova, Aprile “celebrava” una nascita e invece Mia madre contempla una morte (5). «Un film stranissimo», scrive Cristina Piccino «spiazzante nel movimento emozionale… la rottura degli schemi morettiani…». (6) È vero. Anche se alla fine si può riconoscere che l’esito stava maturando da tempo. Quanto a me, dopo aver raccolto le poche idee, chiudo con una constatazione non definitiva, anzi augurale: come si può fare un film che all’istante riporta agli Ottoemezzo di cui la storia del cinema è lastricata, senza cadere nell’emulazione o nella cattiva maniera? E inventare un montaggio dentro cui si danno il cambio sogno (e incubo), immaginazione e memoria nonché, come già dicevo, una naturalezza fantastico-buñueliana, restando fedeli a se stessi per stile? E fare autobiografia in modo che gli altri la vivano come propria? La risposta che vorrei dare è semplice: con lo stato di grazia.

 

(1) Silvia Bre, La fine di quest’arte, Einaudi, Torino 2015. (2) «Il Manifesto» (inserto «Alias»), 18 aprile 2015. L’intervista è di Fabio Francione. (3) «Il Fatto quotidiano», 3 maggio 2015. L’intervista è di Nanni Delbecchi e Malcom Pagani. (4) «Vivi il cinema» n. 2, marzo-aprile 2015. (5) «We love reviews», 20 aprile 2015. (6) «Il Manifesto» (inserto «Alias»), 16 maggio 2015.