CINEFORUM / 550

Con occhio animale

«Per quanto mi riguarda avrei voluto nascere sulla luna, o in qualsiasi altro pianeta. Altrove infatti non sarebbe andata peggio di come è andata qui». La voce che recita queste parole è quella di Elio Germano. Senso e suono scivolano e si intrecciano in suggestioni, sedimentatesi nella memoria spettatoriale, provenienti dal presente filmico italiano: si tratta infatti dello stesso soffio, della stessa inflessione che l’anno scorso fecero vibrare i versi di Leopardi ne Il giovane favoloso di Mario Martone. Quel respiro che aveva sostenuto la tensione all’infinito, il bisogno di perdersi negli «interminati spazi», «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete» della poesia leopardiana, che si era inerpicato oltre «l’arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo», proiettandosi, come raccontato nelle visioni oltremondane di La ginestra, nel «purissimo azzurro» fino a veder «fiammeggiar le stelle», ora ripiomba a capofitto sulla terra facendosi soffio bovino, «lento, leggero… caldo sbuffo animale» (2). A parlare infatti è Sarchiapone, il bufalo campano di cui Bella e perduta di Pietro Marcello racconta la storia. Una storia che si smetterà di narrare quando il suo protagonista sarà «tornato di nuovo al sicuro su una di quelle stelle lontane. Ma per ora è ancora troppo presto». La collateralità con il poeta di L’infinito non si ferma al coinvolgimento di Germano, basta infatti riprendere le note di regia dove Marcello dichiara: «Ho imparato a guardare l’Italia contemplando il suo paesaggio dai treni, riscoprendo di volta in volta la sua bellezza e la sua rovina. Spesso ho pensato di realizzare un film itinerante che attraversasse la provincia per provare a raccontare l’Italia: bella, sì, ma perduta. Anche Leopardi la descriveva come una donna che piange con la testa tra le mani per il peso della sua storia, per il male atavico di essere troppo bella» (1). Il riferimento è ai versi della canzone civile del 1818: «Oimè quante ferite, / Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio / [...]! Io chiedo al cielo / E al mondo: dite dite; / Chi la ridusse a tale? / […] sparte le chiome e senza velo / Siede in terra negletta e sconsolata, / Nascondendo la faccia / Tra le ginocchia, e piange ./ Piangi, che ben hai donde, Italia mia».

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco

Come in La ginestra anche in Bella e perduta ci sono campi cosparsi di «ceneri infeconde», di «zolle incenerite», distruzione, rovine e mura prostrate. Soltanto che adesso il responsabile non è più «un fiato / D’aura maligna, un sotterraneo crollo», quel “sistema” antiprovvidenziale, ugualmente indifferente a umani e bestie, ma chi quel paesaggio lo abita. A fare da sfondo è la “Terra dei Fuochi”, gigantesco immondezzaio infetto di lebbra avvelenata, che ha tra gli emblemi della propria splendida vergogna il Real Sito di Carditello, reggia borbonica diventata nel corso del Novecento «luogo di latitanza dei Casalesi, e i suoi dintorni una “santa barbara” del traffico di armi”». Da solo, senza alcun obbligo, ad arginare la barbarie in atto, e resistere alle minacce, un pastore, Tommaso Cestrone, che insieme alla reggia prova a salvare, da morte sicura, i bufali maschi ritenuti un “sottoprodotto indesiderato”, sia per le logiche della produzione di latte che del consumo di carne. Ma la notte di Natale del 2013, nel bel mezzo delle riprese, Tommaso muore, in modo prematuro e improvviso. Marcello con lo sceneggiatore Maurizio Braucci decidono che il racconto interrotto della sua storia deve proseguire «attraverso un film che è al tempo stesso un documentario, un sogno (quindi, come tutti i sogni, pieno di riferimenti alla realtà) e una fiaba contemporanea». È a questo punto che arriva, dalle profondità ctonie delle cavità vesuviane, Pulcinella, guardia delle anime senza nome, per prendere a consegna ciò che Tommaso non ha potuto portare a termine: mettere in salvo il bufalo Sarchiapone. Nella confidenza scostumata che la tradizione napoletana (e più anticamente quella italica) ha con la morte, che trova espressione in una forma pagana di culto prossemico, di estrema vicinanza fra l’aldiquà e l’aldilà, Pulcinella, come sostiene Enzo Moscato, col suo aspetto tellurico, viscerale e plebeo, incurvo e immiserirto, «è la terribilità dell’inconscio», il traghettatore tra il mondo terreno e l’Oltretomba. Sarà lui ad accompagnare il bufalo lontano dall’infelicità del presente così segnato dalla predilezione della sventura, verso Nord, in quella che fu la Tuscia, un lungo viaggio in un’Italia bella e perduta, che li porterà da Gesuino, poeta pastore dell’Alto Lazio.

La vastità incomprensibile dell’esistenza

Ma Gesuino, come raccontano gli autori, «di fronte all’offerta di tenere con sé un bufalo scampato al degrado e portato fin lì da Pulcinella, […] ha proposto per Sarchiapone un finale tragicamente reale: l’animale non può scampare al suo destino di schiavo degli uomini, che ne decidono a piacimento la sorte. E quindi di nuovo la morte, stavolta rituale, sacrificale, ma comunque la morte dell’animale». Come Leopardi in La ginestra il regista sceglie una prospettiva subumana, un colpo d’occhio infinitamente superiore a quello dell’uomo: il bufalo accetta la sorte che il destino gli ha dato, qualunque essa sia, senza viltà. È innocente, nel suo candore di vittima ha perfetta esperienza di tutto ciò che esiste: «Vede al di sopra della vista umana. Conosce […] la crudeltà della natura e di ogni potere, “e l’infinita vanità del tutto”» (3). Non fugge da se stesso («Questa è la mia storia, l’unica cosa che ho, e me la tengo uguale»), dai propri doveri, come invece farà Pulcinella che sceglie di deporre la maschera, preferendo adottare un punto di vista “personale” sulle cose, condannandosi però all’isolamento individuale: così facendo, infatti, smette di essere sensibile alla vita diversa e discontinua delle forme, e si scoprirà incapace, come invece prima riusciva a fare, di ascoltare Sarchiapone. Come detto dagli stessi autori, Bella e perduta vuole essere una “fiaba contemporanea”, e il film, infatti, non sfugge il confronto con la dimensione magica propria della favolistica, riuscendo a vedere, nella tragicità del reale, occasioni aperte al meraviglioso; il fantastico del resto si contraddistingue per una particolare condizione di dualità, proponendo da sempre narrazioni metaforiche che implicano innegabili risvolti verso i temi del reale: per dirla con parole di Calvino, regista e sceneggiatore fanno «un uso intellettuale […] del fantastico che si impone come […] meditazione sugli incubi» (4) del contemporaneo. Da questo voler esser fiaba e quindi altro, pur in prossimità, rispetto al reale, si capisce anche la scelta di dare alle immagini una grana visiva che renda evidente questo processo di distanziazione (il film è girato in 16mm, con pellicola scaduta; mentre le soggettive del bufalo sono state realizzate adoperando una cinepresa a manovella, una Super16 modificata); quella di cui parla Paul Ricœur, ovvero la capacità di «ri-figurare il reale, nel duplice senso di scoprire dimensioni nascoste dell’esperienza umana e di trasformare la nostra visione del mondo» (5). In questa maniera lo spettatore trova, grazie alla mediazione del testo filmico, la possibilità di ampliare la propria comprensione delle cose: di fronte a un mondo rifigurato egli scopre la possibilità di rifigurare se stesso, di agguantare le nuove possibilità di senso che il film apre, mostrandogli l’apertura del mondo, il suo essere diverso da come era scontato che fosse. «È un punto di vista sul mondo. È una questione di arbitrio e di scelta. Dietro a Bella e perduta c’è un’inchiesta, un lungo lavoro di documentazione, di studio delle fonti […]. il percorso per raggiungere questa fiaba è stato lungo» (6). E qui sta tutta la potenzialità del film, nella capacità che ha di offrire «una rilettura del mondo e di se stessi» (7).

(1) Dove non indicato le citazioni sono riprese dai Canti di Giacomo Leopardi e dal pressbook di Bella e perduta. (2) Consorzio Suonatori Indipendenti, Memorie di una testa tagliata, Ko de mondo, I dischi del mulo, cd. (3) Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano 2011, pag. 405. (4) Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino, 1980, pag. 216. (5) Paul Ricœur, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1995, pag. 89. (6) Pietro Marcello in Giulio Sangiorgio, Oh mia patria, «FilmTv» n. 46, 2015, pag. 16. (7) Ibidem, pag. 88.